1927, Theo van Doesburg, Jean Arp e Sophie Taeuber Arp realizzano il Café L’Aubette all’interno dell’omonimo, monumentale edificio tardo barocco di Strasburgo, il caffè è anche sala da ballo e cinematografo. L’interno – secondo i principi del De Stijl, movimento fondato da van Doesburg e Piet Mondrian nel 1917 – è rigorosamente neoplastico: le superfici si scaglionano nelle tre dimensioni: rosso, giallo e blu caratterizzano i pannelli parietali, sedie e tavolini mentre le rigorose linee nere della griglia stereometrica tengono sotto controllo lo spazio senza che esso assuma nessuna continuità e coesione. Tutto è apparentemente disarticolato.
Così mi sono sentito a Strasburgo, città apparentemente coesa e solidamente borghese, in cui la successione di edifici storici e contemporanei ha la stessa, casuale discontinuità di mondi paralleli e intercomunicanti. Mi aspettavo una città alla Simenon, autopta della Francia di provincia, fondata su solide tradizioni e sordidi segreti dietro impassibili facciate ottocentesche e invece, nel ricordo, nulla si connette e le immagini urbane si disperdono su assi cronologicamente e spazialmente indeterminati.
Dietro l’assoluto presente delle piazze risuonanti di molteplici linguaggi e dei grandi viali, la “storia” spunta molesta e squilibrante dietro ogni cantone oltrepassato, in ogni ponte percorso, a ogni edificio osservato. A proposito di questi ultimi non posso che pensare al Barrage Vauban, la chiusa realizzata nel 1690 da Sébastien Le Prestre de Vauban, “le plus honnête homme et le plus vertueux de son siècle” [Saint-Simon, Mémoires, ed. Pleiade, II, pp.160-161] per ordine di Luigi XIV, che aveva da poco riannesso l’Alsazia-Lorena, Strasburgo capoluogo, alla Francia. Una lunga facciata di mattoni scanditi da pilastri e tre archi, destinati ai tre corsi confluenti davanti al Barrage, che in caso di assalto doveva bloccare il flusso delle acque e allagare l’ingresso alla città, impedendo ai tedeschi di riconquistarla. Ciò che mi colpì nel Barrage fu il corridoio interno, oggi riscattato per i turisti da un Belvedere sul tetto, che mi ha fatto pensare a un brano di François Couperin, Les barrycades misterieuses, 1717, ancor oggi prediletto dagli esecutori per la sua esangue, arcana spiritualità, le cui note risuonerebbero appropriate nell’esibita austerità del lungo passaggio coperto.
L’opera di Vauban è soverchiata, nello sfondo urbano, dalle vetrate del Museo d’arte contemporanea, di cui non ricordo nulla sia detto, nemmeno il silente Hortus Conclusus di Mimmo Paladino (tra le prime cose che appaiono su Wikipedia) frammento dell’installazione beneventana, qui posto forse a guardia della città…la città ma in realtà molte città, volta a volta francese o “tedesca”, finché dal 1870, pronube le infinite guerre dinastiche europee, il pendolarismo politico-amministrativo è diventato frenetico: quindi nuovi dominanti, e la loro lingua, religioni clero eccetera; finché dopo la Seconda guerra mondiale Strasburgo è passata definitivamente alla Francia.
Nei tre secoli di appartenenza francese i principi-vescovi Rohan hanno avuto modo di edificare e ingrandire un meraviglioso palazzo, oggi sede di due/tre musei cittadini, ma neppure questo appaga lo smarrito viaggiatore: qualcosa ancora non torna e, anticipo, non tornerà mai; anche la sua grande terrazza affacciata sull’Ill, destinata al loisirs dei nobilissimi proprietari, non può far dimenticare che siamo in Francia solo per caso, questo potrebbe essere suolo tedesco con altre voci, altre istanze.
Appena dietro il Palais, all’interno della Cattedrale sorge uno di quegli orologi sbalorditivi per sapienza di cui oggi – colmi gli occhi delle meraviglie servite a comando sullo schermo del laptop – è difficile capire la portata scientifica, tecnica e artigianale. Iniziò a essere costruito tra il 1572 e il 1574 su progetto di Conrad Dasypodius, tra i pochi matematici all’epoca ad aver studiato, e compreso, il De Revolutionibus di Nicolò Copernico, pubblicato nel 1543 a Norimberga ma pensato ed elaborato nei decenni precedenti nell’ultima Thule della cultura scientifica europea, la chiesa di Frauenbork, città all’epoca appena divenuta polacca, di cui Copernico era canonico.
Pensieri non riconciliabili, ogni immagine di Strasburgo porta da un’altra parte, più labirintica dell’intrico di fiumi e canali formati dall’Ill e dal Reno che qui si fondono e confondono. Persino le immani strutture della Comunità europea, del Consiglio d’Europa ecc. non mi hanno dato pace, anzi non ho potuto fare a meno di pensare che proprio qui, nell’842 – non ‘1842’ ma proprio 842, (si pensi che il nostro “sao ko kelle terre” è del 960-63) – Carlo il Calvo, “francese”, e Ludovico il Germanico, figli di Ludovico il Pio, giurarono alleanza reciproca ciascuno nella lingua dei sudditi dell’altro (quindi: Carlo in alto-tedesco e Ludovico in proto-francese) in modo da essere compresi dalle truppe dell’alleato, alleanza stipulata contro il loro fratello maggiore, Lotario I. Cosa poteva nascere da questo intreccio di rispecchiamenti linguistici, eterogenei legami di sangue, conflitti endogamici, terre contese tra fiumi, nazioni e linguaggi se non, appunto, Strasburgo?
PS
L’unica opera che ho visto all’Opéra national du Rhin, che ha ovviamente un suo reciproco tedesco dall’altro lato del fiume, è stata la quasi sconosciuta Das Liebesverbot oder Die Novize von Palermo, 1834, di Richard Wagner, il cui titolo italiano è Divieto d’amare ossia La novizia di Palermo. Cosa volere di più?
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