Di fronte a me ci sono le acque salate del lago Issyk-Kul e sullo sfondo, tutt’attorno, i candidi ghiacciai che lo alimentano si fondono con il chiaro del cielo. Per me che arrivo dalle Alpi appare una visione rassicurante, pur sapendo che, anche qui, questi “ghiacci eterni” stanno perdendo volume a gran velocità. Per completare il perimetro del lago di quasi 700 chilometri abbiamo impiegato giorni, ma alla fine ne avremo fatti più del doppio in totale, su strade quasi sempre sterrate. Non è un percorso lineare ma fatto di continue deviazioni, spesso dettate dalla natura che incontro. Credo di viaggiare da giorni intorno ai 2mila metri di altitudine, con cime, tutt’attorno, di 4 o 5mila, dopo essere partito dalla capitale Bishkek, che si trova già a quota mille. Il mio non è un trekking e non sono un turista, mi accompagna Bakai, la nostra comunicazione è minimale e non propriamente verbale, perché non parla inglese, me l’ha presentato Shaarbek Amankul, artista kirghiso, conosciuto a Berlino, con cui collaboro da alcuni anni.
Sono in Kirghizistan e mi sto perdendo nella steppa, su fino al cuore del mondo, tra terra e cielo. Montagne celesti: questo è il significato di Tien Shan, il nome della catena montuosa che attraversa il paese, in cinese perché lambisce anche lo Xinjiang al di là del confine, essendo lunga cinque volte le Alpi. Appena ho visto queste montagne, mi hanno richiamato proprio le mie Alpi, anche se non fanno parte del sistema alpino-himalayano e sono più antiche, generate dall’orogenesi erciniana, che, come quella caledoniana con cui mi sono confrontato un anno fa in Norvegia, è avvenuta prima della comparsa dei dinosauri. Arrivare allo Tien Shan, al centro dell’Eurasia, dopo otto mesi di progetto e di viaggio da novembre ad oggi, è anche un percorso a ritroso nel tempo. Questa in Kirghizistan è l’ultima tappa del mio progetto-opera We are the Flood, noi siamo il diluvio. In questo mare in tempesta del momento storico e geologico che stiamo vivendo, sto cercando possibili approdi toccando i quattro angoli del pianeta, dal deserto, agli iceberg, alle foreste primordiali.
Persone genuine l’altro giorno in una yurta, mentre scendevo da un alto passo dopo aver percorso molti chilometri sul confine orientale con il Kazakistan, mi hanno offerto del kumyz, latte di cavalla fermentato. Oltre a entrare in contatto diretto con la natura e con tempi “molto prima di noi”, sono immerso nel rapporto tra l’essere umano e questi luoghi. Mi ha fatto pensare il fatto che i quattro punti del pianeta che ho toccato sono culla di culture del passato, oppresse o in via di sparizione. Ora mi trovo a confronto con la tradizione nomade delle tribù kirghise. Secondo un poema epico arcaico, trasmesso oralmente come quello omerico, il poema di Manas, le tribù erano quaranta, coalizzate per resistere alle pressioni cinesi da un lato e musulmane dall’altro. Poi la loro cultura tradizionale è stata annichilita dall’annessione all’impero sovietico e adesso sta ancora lottando per una nuova identità nazionale. Sto pensando a cosa può implicare il fatto di ripensare la propria cultura, il proprio paradigma di riferimento, perché la nostra società è abituata a cullarsi in uno status che reputa sia da sempre e per sempre.
Qui mi sta succedendo una cosa strana: sto facendo sogni che mi agitano. Difficilmente ricordo la mia esperienza onirica e, anche in questo caso, non riuscirei a raccontarla con precisione, ma, quando mi risveglio, di soprassalto, turbato, mi resta la sensazione di aver sognato qualcosa che riguarda l’esistenza stessa, qualcosa da risolvere, non una cosa astratta, direi la posizione di essere umano sulla Terra. Non mi era mai capitato. Ogni giorno, mentre Bakai riposa, cerco un rapporto solitario, sciamanico con l’ambiente e mi allontano da solo per diverse ore. Ho attraversato una prateria potente e colorata, miliardi di fiori, difficili da penetrare, ma comunque accoglienti. Sono salito pacatamente sui fianchi ripidi delle montagne della Gorge Grigoryevskoe e di Ozero Dzhashil’. A Dzhetyoguz mi sono addirittura inerpicato, relazionato, ho danzato con la conformazione rocciosa chiamata Testa di drago, per la forma che potrebbe ricordare proprio un animale mitologico. Ha per protagonista un drago anche una leggenda tramandata di generazione in generazione, che spiega la nascita del canyon Skazka e del vicino lago Issyk-Kul. Il drago, innamorato di una ragazza della città che ora giace sul fondo del lago, s’infuriò per non essere corrisposto e minacciò di liberare l’acqua dai pozzi. Quando ci riuscì, sommerse la città, uccidendo anche la ragazza. Il dragone è ancora lì a piangere il risultato nefasto della sua scelta, che gli si è ritorta contro: le rosse montagne sono il suo corpo con le numerose teste e le sue lacrime i numerosi affluenti del lago, che non ha emissari. Questa la storia raccontatami da un anziano, che mi parlava con il tipico cappello kirghiso alto sul capo, durante la generosa condivisione di una cena variopinta. Nemmeno lui parlava inglese, ma era così espressivo che tutto si componeva nella mia immaginazione.
Era la storia di un diluvio, inaspettata e così piena di significati, un’incredibile sincronicità con il mio viaggio. Ora, esausto dopo nove giorni di spedizione costellati da arrampicate, performance, video, droni e segnali fumogeni realizzati in solitudine, mi rimetto a scrivere le ultime battute, entusiasta per uno dei più coinvolgenti progetti che abbia mai realizzato. Attendo il volo verso casa, in un hotel lussuoso della capitale, percependo il contrasto abissale con la vita nomade, piena di purezza e valori indigeni.
Kyrgyzstan, luglio 2024. Il progetto “We Are the Flood” è realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito di Italian Council (12a edizione, 2023), il programma di promozione internazionale dell’arte contemporanea italiana.
Testo di Stefano Cagol
A cura di Camilla Boemio
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