Consuming Pleasuresè il terzo video di un progetto più ampio. Nella prima parte ti sei concentrato sul “car system”, poi sui suburbs e ora sul consumismo, visto come mondo falso, un modo per riempire un vuoto psicologico. Hai scelto di rappresentare questo mondo artificiale con immagini che mettono in evidenza proprio questa falsità, usando un sistema altrettanto “sintetico”, la computer grafica, generato da un codice. Sembra che il mezzo di rappresentazione aderisca in ogni senso alla situazione che descrivi…
Sì, quello che dici è sicuramente vero. Devi leggere queste opere su diversi livelli, che danno luogo poi a differenti letture. Un altro concetto importante per me è il modo in cui vengono controllati i consumatori nella società occidentale: sembra che abbiano libertà totale, invece è il contrario, sono pilotati dai network, da come vengono presentati e pubblicizzati i prodotti. E questo controllo, questa manipolazione nell’acquisto di un bene, mi sembra un aspetto interessante della società moderna. Tutto ciò si svolge nei centri commerciali, enormi scatole distribuite in uno spazio industrializzato e nei suburbs, che ho rappresentato anche nei miei lavori precedenti. L’“esperienza” di fare acquisti in questo tipo di ambiente per me non è esattamente qualitativo, e mi stupisce vedere come agisca a un livello così vasto, come le masse sembrino apprezzare questo modo di fare acquisti…
Mi piace la tua definizione dello sviluppo delle periferie come di una malattia “viscosa” che si diffonde in un corpo. Perchè senti la necessità di rapprentare questo “virus”, questa decadenza di un corpo sano?
Un motivo può essere che sono nato e cresciuto in Norvegia, dove la natura ha sicuramente un ruolo importante. Ora passo molto tempo a New York, dove mi sono reso conto dell’enorme differenza. E poi ci sono le zone esterne alla città, dove il paesaggio naturale viene trasformato in periferie tentacolari che stanno si stanno diffondendo ad un ritmo allarmante. Per quest’ultimo progetto, per esempio, l’ispirazione mi è venuta nella zona di Phoenix e Tucson, in Arizona, dove ci sono enormi sobborghi. Ero andato lì per vedere delle varietà uniche cactus in un parco naturale: credevo di trovarmi in mezzo alla natura incontaminata, poi mi sono accorto che in realtà stavo guidando attraverso una continua periferia!
Questo “mondo perfetto” si rivela essere disfunzionale: allo stesso modo, la tua rappresentazione impeccabile insinua nello spettatore un senso di ansia…
Sì, certo! Ancora una volta, deriva dalla mia esperienza personale negli Stati Uniti. Non passa molto tempo che ti trovi intrappolato nel sistema e non hai altra alternativa se non seguire il sistema stesso. Penso a come sono impostate queste società, senza quei momenti di socializzazione che invece hanno società più tradizionali, o mi vengono in mente le città europee, dove c’è una piazza centrale in cui le persone si incontrano. Questi posti mancano nei sobborghi: qui i ragazzi non hanno altro posto per incontrarsi che i centri commerciali, luoghi controllati, “artificiali”. All’inizio la presunta libertà di questi posti sembra fantastica, ma se cominci a pensarci seriamente…
Lavoro con il 3D da 15 anni, sono assolutamente ispirato dal mondo virtuale, ci sono “fisicamente immerso”, ma certe volte ti può “consumare”. Se lavori su dei modelli 3D per un anno o giù di lì, quella diventa la tua realtà, sei assorbito da quel mondo, per cui devi trovare un equilibrio, sennò finisci per non uscire di casa o per non vedere più gente…
D’altro canto internet è un segno della società che si evolve, la banda larga porta intrattenimento e più informazione. In America, però, questo si accompagna alla paura a uscire di casa, ad andare nei luoghi pubblici: la gente si muove solo in macchina, quando torna a casa si chiude dentro, accende l’antifurto e l’unico mezzo di comunicazione è la televisione. La televisione e Internet diventano così una valida alternativa alla socializzazione e l’unico contatto esterno che hanno queste persone è con il postino della FedEx!
Parli di comunità fatte di casette monofamigliari con un cartello “non avvicinarsi” e di auto che sembrano piccoli carri armati. Queste tematiche mi fanno venire in mente Michael Moore, il regista di Bowling for Columbine, e alcuni film di David Linch. Ti hanno ispirato in qualche modo? Quali sono i tuoi riferimenti artististici?
Mi fa piacere essere comparato a questi registi. I film mi ispirano molto: ultimamente mi hanno colpito film come Bowling for Columbine, ma anche One Hour Photo o American Beauty… Poi faccio molta ricerca guidando per il paese, raccogliendo le esperienze e le informazioni che mi servono. Ma per me rimane sempre molto importante avere ben presente con quale medium ho a che fare: lavoro con l’arte, le mie opere sono destinate a musei e gallerie, il che mi pone certi vincoli, devo rendermi conto di quali sono le caratteristiche del mio lavoro. Bisogna comunicare col giusto linguaggio.
Sì, all’inizio faccio molte ricerche. Per esempio, per le periferie non potevo trovare ispirazione a New York o in Norvegia, cercavo comunità sparse sul territorio: quindi sono andato nel sud-ovest degli Stati Uniti, New Mexico, Arizona, California… hanno sobborghi enormi. Faccio così anche per gli altri progetti: raccolgo materiale e poi lavoro nel mio studio sul computer per ricreare le strutture. E’ tutto ricreato virtualmente e certe volte non esiste necessariamente per davvero…
Qual è il tuo rapporto con la musica? Mi risulta che sia molto importante nei tuoi video e che tu lavori sempre con la stessa persona.
Sì, trovo la musica veramente importante. Fin da Antebellum America, che è stata presentato anche alla Biennale di Venezia, collaboro con lo stesso musicista (Eric Wøllo, ndr). Credo che pensiamo più o meno nella stessa maniera: lui compone musica elettronica, è molto versatile, usa materiali campionati, suona la chitarra. E’ eccitante poter scegliere in un repertorio così ampio… Quello che vorrei ottenere è che l’immaginario del video e il suono convergano in un’unica opera: ecco perchè lavoro con questo medium, mi dà più possibilità.
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monica ponzini
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