Perché sostieni nei tuoi scritti critici un’autonomia concreta della videoarte nei confronti della progenitrice tecnica, la tv, e soprattutto del cinema?
Secondo me, vi è una maggior autonomia dal cinema, che dalla televisione. La videoarte storicamente è stata considerata come prolungamento tecnologico del linguaggio cinema e, per altro, molta tv è fatta proprio da persone appartenenti alla realtà cinematografica, per cui vi è stata e vi è una sotto-utilizzazione del mezzo televisivo da parte di individui che avevano differenti formazioni (teatrale, radiofonica, ecc.). Comunque la grande differenza che intercorre fra video e cinema è il grado di interattività e il tempo reale: la diversità tecnica dell’oggetto tv, che è sviluppata dalla possibilità di intervenire manualmente su di esso, e la sua presenza nel quotidiano e nella nostre abitazioni, sono caratteristiche invasive che per il linguaggio televisivo sono deteriori, ma che per la videoarte ritengo positive. Inoltre il tempo reale,
Parecchi tuoi lavori trattano il tema della memoria, come per esempio Cattedrali della memoria, Dybbuk-memorie dei campi, ecc.: è una scelta dovuta agli argomenti trattati o, in realtà, è anche una scelta estetica dettata dal medium?
Mah, entrambe le cose: dato che lavoravo all’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino, da non appassionato di storia mi sono trovato ad esserlo, soprattutto di immagini storiche. Peraltro Dybbuk era un lavoro commissionato il cui tema fisso era proprio la memoria, mentre Cattedrali è stata una mia scelta dettata da questa nuova passione, e poi anche per un motivo suggerito dal medium, in particolare dal feedback, che realizza un’immagine fortemente memoriale, ciclica, ma sempre differente.
Mi sembra che il tuo rapporto con le video-installazioni, all’interno del tuo percorso artistico, sia un po’ conflittuale, dato che preferisci lavorare con i video-monocanale e la quantità di video realizzati è di gran lunga superiore rispetto a quella delle video-installazioni, sbaglio?
Sì, è vero, anche se mi piace molto lavorare con il concetto di spazio, cosa che faccio con le mie ultime performance da vj e con gli spettacoli dal vivo. Le video-installazioni le trovo troppo inserite nel mercato dell’arte: oltre a non comunicarmi effettive emozioni, soprattutto mi sembra che ti releghino a sviluppare una funzione decorativa e architettonica all’interno di una galleria e ti riconducano a una funzionalità che trovo inopportuna nell’arte, oltre a sviluppare, per quello che ho visto, un’interattività molto ludica, spettacolare, da intrattenimento, ma poco artistica. Per me l’arte ha un valore diverso: deve porre in contraddizione lo spettatore, altrimenti rischia di perdere il suo senso.
Attualmente possiamo asserire che i video-artisti stiano procedendo in due direzioni: la prima verso un utilizzo sempre più ricorrente di immagini ad alta definizione e mirato anche a una ricerca di spettacolarità, la seconda, in opposizione alla prima, verso un ritorno a un’immagine di bassa definizione. Che cosa ne pensi di queste tendenze, sia dal punto di vista critico che artistico?
Trovo che questa dicotomia, che giustamente sottolinei, c’è sempre stata: c’è sempre stata questa lotta in cui alcuni video-artisti hanno cercato di teorizzare la loro posizione fin dagli albori, penso ad es. a Paìk vs. Bill Viola. È una lotta che riecheggia quella, storicamente parlando, fra astrattisti e non astrattisti, penso in realtà che sia solo una questione di scelta. Oggi, dato che ormai esistono delle scuole storiche nell’ambito video-artistico, è, forse, un fattore di moda; io cerco di lavorare con tutte e due le realtà, li vedo come due aspetti che si possono coniugare, la loro divisione è da imputare, a mio avviso, a un fatto di critica.
[fine prima parte]
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