In concorso alla 65esima Mostra del cinema di Venezia,
Gake no ue no Ponyo (2008) esce domani nelle sale italiane, col titolo
Ponyo sulla scogliera. A firmarlo è quell’
Hayao Miyazaki (Tokyo, 1941) che, sempre a Venezia, ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera nel 2005 (ma la sfilza di premi ormai non si conta: basti pensare che solo
La città incantata si è aggiudicato l’Orso d’oro nel 2002 e l’Oscar come Miglior film d’animazione nel 2003).
La trama è presto detta: Brunhilde, un intraprendente e anomalo pesce rosso, è raccolto sugli scogli dal piccolo Sosuke. Ribattezzato Ponyo, viene recuperato dal padre Fujimoto, che la riporta negli abissi. Ma Ponyo fugge una seconda volta, riuscendo a trasformarsi in essere umano e causando un brutale innalzamento del livello del mare. Solo superando una prova Sosuke potrà restare in compagnia di Ponyo, che in cambio della perdita dei suoi poteri sarà definitivamente umana.
Gli ingredienti tipici del Giappone e in particolare della poetica di Miyazaki ci sono tutti: l’oceano, l’ambiente e il femminino; il sarcasmo nei confronti del militarismo che intride la società del Sol Levante e una dolce ironia verso la presunta saggezza degli anziani.
Ciò ch’è però più evidente è il cambio di passo nello stile dei disegni, che tornano a essere più grossolani, infantili; che ricordano la serie televisiva
Conan, il ragazzo del futuro (1978) piuttosto che
Il castello errante di Howl (2004). Insomma, meno computer e piĂą mano.
S’è scritto che questa svolta è iniziata con una visita alla Tate di Londra, e in particolare con la visione dell’
Ofelia di
Millais, che nel film è riecheggiata dalla
divina madre di Ponyo. Ma specie nei titoli di testa e di coda non si può non cogliere la citazione di
Hokusai. In questo senso, semplicitĂ del disegno non significa affatto assenza di raffinatezza.
Detto questo, è evidente che vi sia un difetto di sceneggiatura. Le singole scene restano di forte impatto, visionarie come di consueto (e non solo, dunque, negli scenari apocalittici, come quando Ponyo cavalca gli enormi pesci devoniani durante lo tsunami; ma pure in quei deliziosi dettagli che contraddistinguono l’animazione di Miyazaki: si pensi al polpo che furtivo s’insinua in casa di Sosuke, quando quest’ultimo parte alla ricerca della madre Lisa).
Non è sufficiente sostenere che si tratta di un film rivolto ai più piccoli per giustificare una trama francamente debole, a tratti melensa, e soprattutto pullulante d’incoerenze. E non fanno qui le pulci razionali al piglio surreale di Miyazaki. Perché in suoi precedenti lavori dal medesimo target, come
Tonari no Totoro (1988) – citato esplicitamente in
Ponyo – il plot era senz’altro più solido, pur non cedendo d’un millimetro al “realismo”. A questo punto, si perdoni il paragone azzardato, è forse preferibile riguardare per l’ennesima volta l’ottimo
Finding Nemo (2003) della Pixar.
Non si tratta, certo, d’un giudizio senza appello.
Ponyo è un film da vedere, non v’è dubbio. Ma è assai probabile che non costituirà un highlight nella filmografia del co-fondatore dello Studio Ghibli.