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28
luglio 2009
visualia_fenomeni “Graffiti puliti”? Questione di medium
visualia
I graffiti sono considerati una minaccia al decoro urbano. Ma le mostre di writer & co. spopolano in gallerie e musei. Come assecondare il successo senza dimenticare la salvaguardia degli spazi pubblici?...
Fin dalla sua nascita il Graffitismo si è sempre guadagnato la ribalta del dibattito artistico, ma negli ultimi tempi è riuscito, suo malgrado, a scalare qualche posto anche nelle pagine culturali e persino politiche. Le questioni irrisolte sono essenzialmente due: l’illegalità che sta alla base della “disciplina” e il quoziente di degrado urbano che ne consegue. L’accusa più frequente che si sentono rivolgere i protagonisti di questo variopinto emisfero è quella di vandalismo.
Se il vandalo – nelle righe del leggendario Devoto-Oli – è colui che “distrugge o guasta per gusto pervertito o per grossolana ignoranza e insensibilità”, allora è necessario fare delle distinzioni. O per lo meno, visto anche l’incredibile successo di pubblico e di critica che il fenomeno riscuote tuttora, sarebbe interessante porsi l’interrogativo “vandali o artisti?” all’interno di sedi ufficiali, in cui esperti informati dai due versanti possano civilmente confrontarsi sulle reciproche opinioni.
A complicare una volta di più il già complesso scenario ci si mettono i graffitisti, o meglio gli artisti stessi, che come in qualsiasi altro ambito artistico non riescono a star fermi, spingendo la ricerca sui mezzi al massimo grado di sperimentazione. È già qualche anno che si sente parlare di un progetto che potrebbe scardinare le teorie sul degrado prodotto dai graffiti, che sarebbe in grado addirittura di creare dei “graffiti puliti”. L’autore di questo miracolo è conosciuto come Moose (Paul Curtis), inglese di nascita, che dopo un breve passaggio al celebre Goldsmith si è mosso liberamente tra musica, design e advertising. Il procedimento è molto semplice, ed è proprio lui a dichiararlo: “I simply use anything that will create a strong contrast between the clean marks and their dirty background, I started out just using old socks/rags to wipe dirt off dusty road tunnels walls but then developed this into using more industrial methods”. Moose è in perfetto equilibrio tra il fermo della polizia e la volontà di sfruttamento del mercato e per farlo non ha usato altro che un paio di vecchi calzini inumiditi con detergenti biologici. Dal punto di vista formale, però, il cambiamento è notevole: invece che aggiungere campiture cromatiche alla pelle muraria di partenza, il soggetto viene creato attraverso una lievissima scalfittura dello sporco sedimentato.
La riflessione sul medium a questo punto impone una sosta metodologica: se il graffito old school eseguito a spray è in linea con le pitture murarie delle grotte di Lascaux, il “graffito pulito” recuperando la sua origine etimologica si rifà alle incisioni rupestri.
Ma gli opposti si attraggono, si sa, e a un procedere in negativo ne corrisponde sempre uno in positivo. Così se le ripuliture di Moose si associano per evidenti tratti comuni alle incisioni neolitiche, la deflagrazione delle forme tipografiche si apparenta al bassorilievo, quando non definitivamente alla scultura. È il caso quest’ultimo di alcuni esperimenti di writing plastico, condotti in Italia da esponenti della prima guardia come Dado e Joys in cui le lettere, dopo aver subito il trattamento implosivo dell’incastro intraverbale, riconquistano attraverso un processo esplosivo la fisicità della terza dimensione.
Capita poi, in alcuni casi specifici, che tali opere vengano posizionate in luoghi strategici per essere osservato anche dal passante più distratto, installate con cura nel bel mezzo di rotatorie, sulle squallide pareti dei sottopassi o ancora ad altezze impensabili nelle vicinanze di tangenziali e autostrade. Squadre di “allestitori” si muovono con il beneficio dell’oscurità proprio come realizzato e auspicato dalla Guerrilla Sculpture Squad di Don Boyd, esimio rappresentante della fase avanzata di Fluxus.
Il writing è passato così dalla ricerca sullo stile fatta di velocità, precisione e originalità, all’aggiornamento tecnologico dei propri mezzi espressivi, come la migliore performance degli spray, fino a oggi, dove sembra che sia in corso una vera e propria deriva mediale. A conferma di questa tesi è possibile consultare, con un semplice clic nei motori di ricerca sul web, gli archivi del Graffiti Research Lab. Che in questi tempi di mania dell’archiviazione ci s’imbatta in blog, web-album e quant’altro possa contenere le catalogazioni più disparate non è per niente strano, ma il progetto di G.R.L. è tutt’altra cosa. L’analisi intorno ai mezzi usati per la creazione di graffiti ha definitivamente raggiunto e introiettato i supporti tecnologici d’avanguardia, cosicché le tag (le arzigogolate firme lasciate dai writer) appaiono come brillanti e fugaci scritte laser. Al bivio tra esperimenti comunicativi e scenari fantascientifici, le facciate dei palazzi si trasformano in lavagne luminose dove testare la sorprendente commistione di video e led, senza il pericolo di lasciare alcuna traccia imprudente e foriera di degrado. Sulla stessa linea si pongono alcune Videoincursioni di Verbo, già attivo con la sua crew in performance di photowriting, che può liberamente creare l’illusione di una mostra personale negli storici spazi della Triennale milanese o agevolmente fermare per un istante il proprio passaggio sul Pirellone.
La costante dell’illegalità è intatta, ma ciò che si percepisce è una lenta marcia verso una materialità altra da un lato e un cammino intrapreso all’insegna della smaterializzazione dall’altro. Gli street artist, come usa chiamarli da qualche anno a questa parte, s’interrogano in merito al dilemma “semplificare o sofisticare”, sia che il loro operare si avvicini vertiginosamente al muralismo storico, sia che il contagio con la cultura cinematografica e telematica imponga un’intrinseca lievità.
Se il vandalo – nelle righe del leggendario Devoto-Oli – è colui che “distrugge o guasta per gusto pervertito o per grossolana ignoranza e insensibilità”, allora è necessario fare delle distinzioni. O per lo meno, visto anche l’incredibile successo di pubblico e di critica che il fenomeno riscuote tuttora, sarebbe interessante porsi l’interrogativo “vandali o artisti?” all’interno di sedi ufficiali, in cui esperti informati dai due versanti possano civilmente confrontarsi sulle reciproche opinioni.
A complicare una volta di più il già complesso scenario ci si mettono i graffitisti, o meglio gli artisti stessi, che come in qualsiasi altro ambito artistico non riescono a star fermi, spingendo la ricerca sui mezzi al massimo grado di sperimentazione. È già qualche anno che si sente parlare di un progetto che potrebbe scardinare le teorie sul degrado prodotto dai graffiti, che sarebbe in grado addirittura di creare dei “graffiti puliti”. L’autore di questo miracolo è conosciuto come Moose (Paul Curtis), inglese di nascita, che dopo un breve passaggio al celebre Goldsmith si è mosso liberamente tra musica, design e advertising. Il procedimento è molto semplice, ed è proprio lui a dichiararlo: “I simply use anything that will create a strong contrast between the clean marks and their dirty background, I started out just using old socks/rags to wipe dirt off dusty road tunnels walls but then developed this into using more industrial methods”. Moose è in perfetto equilibrio tra il fermo della polizia e la volontà di sfruttamento del mercato e per farlo non ha usato altro che un paio di vecchi calzini inumiditi con detergenti biologici. Dal punto di vista formale, però, il cambiamento è notevole: invece che aggiungere campiture cromatiche alla pelle muraria di partenza, il soggetto viene creato attraverso una lievissima scalfittura dello sporco sedimentato.
La riflessione sul medium a questo punto impone una sosta metodologica: se il graffito old school eseguito a spray è in linea con le pitture murarie delle grotte di Lascaux, il “graffito pulito” recuperando la sua origine etimologica si rifà alle incisioni rupestri.
Ma gli opposti si attraggono, si sa, e a un procedere in negativo ne corrisponde sempre uno in positivo. Così se le ripuliture di Moose si associano per evidenti tratti comuni alle incisioni neolitiche, la deflagrazione delle forme tipografiche si apparenta al bassorilievo, quando non definitivamente alla scultura. È il caso quest’ultimo di alcuni esperimenti di writing plastico, condotti in Italia da esponenti della prima guardia come Dado e Joys in cui le lettere, dopo aver subito il trattamento implosivo dell’incastro intraverbale, riconquistano attraverso un processo esplosivo la fisicità della terza dimensione.
Capita poi, in alcuni casi specifici, che tali opere vengano posizionate in luoghi strategici per essere osservato anche dal passante più distratto, installate con cura nel bel mezzo di rotatorie, sulle squallide pareti dei sottopassi o ancora ad altezze impensabili nelle vicinanze di tangenziali e autostrade. Squadre di “allestitori” si muovono con il beneficio dell’oscurità proprio come realizzato e auspicato dalla Guerrilla Sculpture Squad di Don Boyd, esimio rappresentante della fase avanzata di Fluxus.
Il writing è passato così dalla ricerca sullo stile fatta di velocità, precisione e originalità, all’aggiornamento tecnologico dei propri mezzi espressivi, come la migliore performance degli spray, fino a oggi, dove sembra che sia in corso una vera e propria deriva mediale. A conferma di questa tesi è possibile consultare, con un semplice clic nei motori di ricerca sul web, gli archivi del Graffiti Research Lab. Che in questi tempi di mania dell’archiviazione ci s’imbatta in blog, web-album e quant’altro possa contenere le catalogazioni più disparate non è per niente strano, ma il progetto di G.R.L. è tutt’altra cosa. L’analisi intorno ai mezzi usati per la creazione di graffiti ha definitivamente raggiunto e introiettato i supporti tecnologici d’avanguardia, cosicché le tag (le arzigogolate firme lasciate dai writer) appaiono come brillanti e fugaci scritte laser. Al bivio tra esperimenti comunicativi e scenari fantascientifici, le facciate dei palazzi si trasformano in lavagne luminose dove testare la sorprendente commistione di video e led, senza il pericolo di lasciare alcuna traccia imprudente e foriera di degrado. Sulla stessa linea si pongono alcune Videoincursioni di Verbo, già attivo con la sua crew in performance di photowriting, che può liberamente creare l’illusione di una mostra personale negli storici spazi della Triennale milanese o agevolmente fermare per un istante il proprio passaggio sul Pirellone.
La costante dell’illegalità è intatta, ma ciò che si percepisce è una lenta marcia verso una materialità altra da un lato e un cammino intrapreso all’insegna della smaterializzazione dall’altro. Gli street artist, come usa chiamarli da qualche anno a questa parte, s’interrogano in merito al dilemma “semplificare o sofisticare”, sia che il loro operare si avvicini vertiginosamente al muralismo storico, sia che il contagio con la cultura cinematografica e telematica imponga un’intrinseca lievità.
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Le mani (di bianco) sulla città
claudio musso
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 57. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
Bell’articolo, ricca panoramica di tecniche, ciascuna delle quali non dovrebbe escludere le altre. Trovo però pericolosa la tendenza ad assimilare queste “muralità” alle espressioni più canoniche, qualificando e classificando, che finirebbe per porre dei limiti, arrivando a “periziare” le opere, per decidere quelle da imbiancare, o all’assurdo milanese dove gli artisti(ma solo quelli che son stati buoni) vengono invitati a graffittare un chiostro cinquecentesco, mentre le squadre del vicesceriffo cancellano e castigano opere fatte su muri degradati o lugubri palazzi, che molto hanno da guadagnare da qualche colore.
Personalmente, non pratico per limiti d’età e di peso, ma trovo che stiamo vedendo l’arte più valida del panorama contemporaneo, fra l’altro in costante evoluzione. Probabile che abili writers riescano perfino ad alleviare la tristeria di certe installazioni, talvolta imposte agli spazi pubblici….