Categorie: visualia

visualia_interviste | Cinema a memoria

di - 11 Giugno 2009
Ciò che il film originario cercava di cancellare attraverso la forma realistico- documentaria era proprio una distanza di mediazione fra l’occhio che riprende e il soggetto della ripresa. In qualche modo, porre l’attenzione sul supporto materiale, attraverso la ripresa di ogni singolo fotogramma con la camera analitica, con il rallentamento dell’immagine e l’inserzione del colore, sembra mettere in discussione la logica prescrittiva che appartiene alla pratica documentaria. È come dire che una documentazione non è mai neutra.
Yervant Gianikian: A partire dall’immagine su cui lavoriamo, c’è sempre da pensare a ciò che l’inquadratura non ha ripreso, o addirittura al fatto che le immagini sono state organizzate per apparire in un certo modo. In Prigionieri della guerra abbiamo lavorato su un documento che mostra prigionieri austriaci in viaggio verso la Siberia. Venivano fatti sfilare più volte davanti all’obbiettivo. Lavoravano in pratica per la cinepresa.
Angela Ricci Lucchi: L’esercito zarista faceva sfilare più volte gli stessi gruppi, perché più erano i prigionieri e più l’esercito era vincitore. I prigionieri si prestavano, credendo che fosse il modo per cui la famiglia li potesse riconoscere; pensavano disperatamente che qualcuno li avrebbe potuti vedere in qualche documentario. Infatti salutavano alla telecamera, gesticolavano, si facevano riconoscere. Però nei diari che abbiamo trovato si legge la stanchezza, questa stanchezza di essere usati. Erano usati per dimostrare il potere, erano fatti sfilare proprio sulla Piazza Rossa. Era la propaganda.
Y.G.: In questo caso era una propaganda che conteneva anche della morale. Infatti facevano vedere i prigionieri mangiare, poi magari non mangiavano, ma facevano vedere che il prigioniero era trattato bene, mentre i diari negano tutto questo. Mangiano per la cinepresa.

Il lavoro che fate sul filmato sembra voler in qualche modo sviluppare una coscienza critica nello spettatore, che è portato a chiedersi cosa sta guardando e a leggere consapevolmente il messaggio che gli viene rivolto, considerando non solo cosa significa, ma anche come. Una sorta di contrapposizione fra un senso etico della visione e un modo “fascista” di vedere…

Y.G.: È lo sguardo che può avere questa forma etica nei riguardi dell’immagine che ha una deviazione. Un esempio di ciò è proprio il nostro film Lo Specchio di Diana.
A.R.L.: Quasi tutto il documentario italiano si sviluppa in epoca fascista. Il nostro in questo caso è tutto un lavoro di smascheramento, di svelamento, lavorando sui dettagli. Vogliamo che gli altri partecipino, che abbiano un ruolo attivo nella visione. Ma la gente si rifiuta. Quando qualcuno dalla sala di proiezione si alza di scatto ed esce sbattendo la porta, e ci capita, significa proprio che si rifiuta di entrare, di far lavorare il suo cervello in una certa maniera. Le immagini della televisione non sono costruite prevedendo questo lavoro. La parte estetica del nostro lavoro, a cui teniamo molto, a prima vista sembra innocua, ma pian piano assume una dimensione etica.
Y.G.: Anche la dimensione installativa è molto importante. Trittico del ‘900 è un progetto che abbiamo realizzato nel 2008 al Mart; lì lavoriamo sulla dialettica che si crea fra due schermi contrapposti, fra due immagini. È un lavoro che facciamo sulle fasi più drammatiche della storia del Novecento, composto da tre postazioni, tre video-opere: Il corpo ferito (2002), …Ai vinti! (2004) e Terrorismo (2008). Lavoriamo su materiale dalla Prima guerra mondiale, la simbologia della fame, il consumismo della società di massa, fino agli sbarchi dei clandestini e al terrorismo internazionale di oggi.

Cosa significa, quali possibilità e pericoli, se ce ne sono, comporta portare la documentazione storica al di fuori dello spazio istituzionale che normalmente gli è riservato, verso una trattazione artistica del tema?

Y.G.: È avvenuto in modo abbastanza inspiegabile, ci è venuto naturale. Siamo stati travolti dalla storia. La storia di quello che vediamo nel filmato e la storia che vediamo oggi in continuazione; questo schermo visto in trasparenza, il fotogramma riflesso con una lampadina che vediamo tenuto fermo, oppure in scorrimento, e la storia che scorre fuori. Queste due immagini ogni tanto sfuggono e ogni tanto si sovrappongono perfettamente. Credo che abbiamo dato agli storici un metodo di lavoro senza volerlo, un metodo analitico, cioè vedere più da vicino.

Da una parte la monumentalità della rappresentazione ideologica, dall’altra il fatto che il materiale che l’ha fissata nel tempo si sta ora sgretolando…
Y.G.: Abbiamo salvato quello che stava andando perduto, nelle nostre immagini, e poi qualcosa se n’è andato.
A.R.L.: Comunque lo Specchio di Diana è un ritratto politico sociale incredibile. In Italia c’era un grosso consenso dietro al fascismo.
Y.G.: Le piazze di Milano erano piene: piazza Venezia, piazza Duomo… Abbiamo dei totali fotografici della cinepresa piazzata sopra le macchine, vicino alla scalinata che riprende a grandangolo.

In questi ultimi mesi di rinnovata attenzione al Futurismo, il mondo della cultura italiana sembra quasi aver dimenticato il clima in cui è nato. Averlo decontestualizzato è un’operazione pericolosa…

Y.G.: Credo che siamo gli unici a parlare di Futurismo e fascismo insieme.
A.R.L.: Siamo andati a Bellagio, dov’è morto Marinetti, per avere la documentazione. È morto scrivendo il Quarto d’ora di poesia della X Mas. Dicono che dopo il Rinascimento, il Futurismo è l’unico movimento internazionale d’arte italiana. Ma allora anche il fascismo è stato un movimento internazionale. Non perché sono internazionali dobbiamo accettarli.

Sembra una nuova esaltazione del Futurismo…
Y.G.: Casca in un momento ideale…
A.R.L.: Quando abbiamo iniziato a leggerlo noi, negli anni ‘70, bisognava essere cauti nel fare delle ricerche sul Futurismo, mentre adesso incontriamo un grosso interesse sul tema. Io il futurismo lo leggo in un certo modo; se altri lo leggono diversamente, forse è il caso di dirlo.

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a cura di paolo caffoni

la rubrica visualia è diretta da claudio musso

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