“
You will seat, will seat with me”, recitano i versi. E, come un predicatore,
Mudboy guida il pubblico in un percorso ascetico. L’atmosfera ipnotica è costruita attraverso una serie di stazioni, una via crucis, una processione aperta dal cerimoniere con tanto d’incenso, orazioni e litanie. In seguito, la musica si occupa del resto: la diffusione di un rumore cupo di base sul quale si ripercuotono le note dell’organo elettronico. Il rito pagano raggiunge il suo apice quando il “mudhead”, arrampincandosi sulle modanature dei finestroni, grida: “
I’m the king of Bologna”.
Da
Netmage 09, ovvero una bizzarra ballata – è così che viene definito dalla direzione artistica -, trasuda una volontà di concentrare l’analisi da un lato sulla figura dell’artista come performer, dall’altro sulle deviazioni della pratica cinematografica. L’allestimento della Sala del Re, il
Live Media floor, ne è la rappresentazione. Il triplo schermo a cui si era “abituati” dalle scorse edizioni lascia il posto all’unico maxi screen, lo schema a postazioni multiple è sostituito da un unico grande palcoscenico. La scelta si adatta alla caratteristiche dei live in palinsesto; le scena audiovisiva in questione, infatti, necessita di una fruizione frontale, che leghi indissolubilmente l’agire del (o dei) performer al corredo iconografico e all’estetica della strumentazione.
I
Black Dice, una delle band più attese della presente edizione, confermano la regola. Il loro live è un tripudio di citazioni da svariati generi musicali (minimal e punk, psichelia e hip-hop ecc.) spalmato su un tappeto noise altalenante. Le immagini che scorrono alle loro spalle sono pattern cromatici
low-res che collidono continuamente verso video-collage psichedelici. Visioni, illusioni, deformazioni retiniche. Le maschere nei frame di
Le Vampire de la Cinématèque (1971) di
Roland Lenthem si sciolgono, esaltando quella fluidità inseguita da tutto il festival, sempre secondo le intenzioni della direzione artistica. Il volto scavato e bitorzoluto di una strega vampira muta nelle forme aggraziate di un viso di donna, con una tecnica graduale e sfumata che ricorda certe tavole di
Escher. Allo stesso modo, con i ritmi delle percussioni e le ricche session delle tastiere
The Skaters invadono la sala, generosi di visionarietà e mistero.
Le tonalità rock dell’intervento dei
Growing si innestano nella rassegna secondo le logiche sopra descritte di un recupero del trend analogico chitarra-basso-percussioni, pur nella sua veste di produzione
drone, delineata da riverberi espansi e continuamente sovrapposti. Il côté visivo di
Joe De Nardo (parte del gruppo e artista visivo) si connota di pratiche care al vjing, come found footage e cut & paste, che regalano una delicata e precisa narrazione fatta di incastri e accostamenti di suggestioni.
Il panorama giapponese, si sa, vive di contrasti. Ed è così che si affiancano
Keiji Haino e
Atak Night. Il primo impulsivo, nervoso, tarantolato e devastante (chiedetelo ai timpani degli intervenuti!), i secondi raffinati, pervasivi ed estremamente armonici.
La proiezione di
The distance to the sun di
Andrea Dojmi porta la sensibilità al cospetto della pellicola, la materialità della cellulosa, la grana corposa. Un viaggio a latere (in senso letterale e figurato) su strade deserte e assolate, una ricognizione negli spazi di ricreazione giovanile, un ritocco digitale, cristallino e prepotentemente geometrico. Gli accordi di
Flushing Device si stemperano, coadiuvati, enfatizzati da retro-armonie di provenienza
field recording.
Il cinema, e i suoi primordi, sono il focus di
Megascope per il progetto
Eclissi di
Virgilio Villoresi. La terza tappa del liveshow si dota del prezioso apporto di
Angstarbeiten (
Luciano Maggiore &
Ezio Puglia), e il ritmo della narrazione è più serrato, i passaggi meno sensibili; il teatro d’oggetti e ambienti raggiunge l’ansiolitica suspance voluta.
Il microcosmo di
Mangrovia si offre come piattaforma sperimentale per progetti nati appositamente per l’occasione e unioni dettate dal momento che sono confluite in una jam session finale degli all guest. La dualità
Thomas Ankersmit &
Valerio Tricoli (quest’ultimo curatore di
Phonorama insieme a
Riccardo Benassi) si attesta su sensazioni ossimoriche. Le lunghe note elettroniche riprese ed enfatizzate dal sax dell’olandese impattano sulla radicalità delle composizioni dell’italiano, mentre il settore video è affidato all’oscillazione intermittente ed elettromagnetica di bande bianche e nere. Giocando sempre con i non colori (bianco e nero), i monitor che accompagnano le sonorità sofisticate di
Pete Swanson,
John Wiese &
Liz Harris mescolano reale e immaginario per un cortocircuito visuale.
Le
Performing Arts pongono il loro imperdibile sigillo con
The Infinite Pleasures of the Great UnKnown di
Bock & Vincenzi. I performer, guardando il Dr Mabuse, si agitano, si contorcono per tutta la durata dello spettacolo, senza sosta, contro la stasi. Una
glamstar canta attraversando la sala, svelando la presenza di un fauno incappucciato. E lo stage principale è intervallato da elementi disturbanti: l’“uomo del mistero” che parla una lingua postprodotta e i “pois viventi” che ballano su melodie sincopate.
Non è possibile vedere tutto, alcune sovrapposizioni non lo consentono. Ma nella mostra liquida – altra definizione del festival – le contaminazioni sono oramai ordinaria amministrazione e, pur riscontrando una sempre più esplicita istituzionalizzione, ampi spazi permangono all’intromissione di caratteri adulteri e incerti. Che promettono effetti collaterali tanto graditi quanto imprevisti.