25 aprile 2024

Con i miei occhi: perché il Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia è così importante

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Il progetto del Padiglione della Santa Sede alla Casa di reclusione femminile della Giudecca che ci fa uscire dalla nostra comfort zone

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, "Con i miei occhi", installation view, ph. Marco Cremascoli

Un padiglione che, come spiega Bruno Racine, nasce da una domanda: «Come si può interpretare oggi il concetto di ‘padiglione nazionale’ storicamente tramandato? La peculiarità della Santa Sede, uno Stato singolare, privo di una scena artistica nazionale, ci ha spinto a sperimentare una formula nuova. La Casa di reclusione femminile della Giudecca è stata la risposta.»

Non è la prima volta per la Santa Sede a Venezia, è a mio avviso una delle tappe obbligate in una visita in laguna quella delle cappelle vaticane sull’isola di San Giorgio, realizzate per la Biennale Architettura del 2018. Ma dopo le partecipazioni sparse del 2013 e 2015 a Biennale Arte e del 2018 e 2021 a Biennale Architettura, sembra che la presenza del Vaticano a Venezia sarà una costante almeno per le prossime edizioni. Questi sono dati che meritano senza dubbio una riflessione su come la Chiesa, che ormai da tempo ha perso il suo ruolo di committente, stia cercando un riavvicinamento con gli artisti, con progetti di alto livello. Proprio come Con i miei occhi, che vede impegnati due importanti curatori del panorama artistico internazionale, Chiara Parisi e Bruno Racine, che hanno chiamato a partecipare otto artisti: Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret.

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

Un messaggio, quello agli artisti, che era già stato lanciato l’8 dicembre 1965 dai Padri del Consiglio Vaticano II, «Questo mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. […] E ciò grazie alle vostre mani.», poi ripreso e rielaborato in molteplici forme, fino a quando nel 1973, Papa Paolo VI annuncia l’inaugurazione della Galleria d’arte religiosa moderna e contemporanea all’interno dei Musei Vaticani. 

Una Galleria che nasce a seguito della questione che il Papa stesso si pone: «l’Arte religiosa è frutto d’altra e ormai sorpassata stagione dello spirito umano, ma può esserlo anche di questa nostra moderna stagione, dove la radice religiosa sembra aver perduto tanto della sua magica virtù ispiratrice?». Ne era consapevole anche  Giovanni Paolo II, nella Pasqua del 1999, quando indirizza la sua Lettera agli artisti, era dunque consapevole che fosse necessario riannodare «un’alleanza feconda» tra Vangelo e arte.

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

Ecco che il Padiglione della Santa Sede nella Casa di reclusione femminile della Giudecca, è un grande passo in avanti per avvicinare Arte e Chiesa, ormai da tempo su due binari ben distinti. Il fulcro di Con i miei occhi è il tema dei diritti umani e della figura degli ultimi, perno centrale del Pontificato di Papa Francesco, che il prossimo 28 aprile visiterà il Padiglione, il primo Pontefice della storia alla Biennale di Venezia.

Un progetto che è dunque importante per una serie di motivi ma in primis per la sua portata, coinvolgendo artisti e curatori di fama internazionale, si distingue da tutti gli esiti, molto spesso mediocri, che l’arte sacra contemporanea ha raggiunto oggi, soprattutto nelle opere commissionate dalla Santa Sede.

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

Un percorso di mostra che per ovvie ragioni non ha paragoni, le visite sono condotte dalle detenute-conferenziere o ospiti della Giudecca, come si definiscono. «Sfideranno il desiderio di voyeurismo e di giudizio verso artisti e detenute stesse, erodendo i confini tra osservatore e osservato, giudicante e giudicato, per riflettere anche sulle strutture di potere nell’arte e nelle istituzioni.» Una visita che in due ore, passate senza telefono o effetti personali all’interno del carcere, ci fa capire molto. Colpisce in particolare il commento di una delle artiste, Sonia Gomes, durante una delle prime visite dedicate alla stampa, quando descrivendo la sua opera installata nella cappella del carcere, spiegava come ha trovato il senso più profondo dell’arte all’interno di questo progetto.

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

E le sue parole tornano alla mente alla fine della visita, nel momento in cui le detenute spiegano a loro modo l’importanza che ha avuto questo progetto, una boccata d’aria, una seconda possibilità, un modo per pensare ad un qualcosa di oltre, una speranza in un logo in cui sembra ormai persa. Ecco che una delle ospiti della giudecca, accomuna questo progetto ad una finestra, una molto particolare. Si tratta infatti della finestra che si trova in uno degli ambienti che si affacciano sull’orto della casa di Reclusione, l’unica finestra del carcere che non ha sbarre e che proprio per questo rappresenta un angolo di normalità per loro, l’unico.

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

Non è facile capire cosa quelle donne vedono in quella finestra, non è facile immaginare la loro gioia, ma è proprio questa la forza di questo progetto, come ci spiega la curatrice Chiara Parisi, «in un angolo sorprendente del mondo, artisti e detenute uniscono le forze espressive in un’insolita collaborazione, […] Con i miei occhi ci invita a esplorare le storie e i desideri di chi vive dentro il carcere attraverso progetti, workshop, opere, poesie, e spazi vitali come palestre e giardini. La mostra che scoprirete è dinamica, un intreccio di relazioni che si sono evolute nel tempo, in un ambiente dove l’essere osservato o giudicato non devono entrare e che riflette ciò che desideriamo per noi stessi, ovunque ci troviamo. Il percorso attraverso il Padiglione, senza telefoni e senza documenti, permetterà alle detenute di guidare i visitatori ‘con i loro occhi’, rivelando come bellezza e speranza siano tessute nella vita quotidiana e come la necessità della libertà persista nella complessità e nella criticità della vita».

Padiglione della Santa Sede, 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Con i miei occhi”, installation view, ph. Marco Cremascoli

Le opere esposte sono di altissimo livello, dal percorso di riscoperta dell’io attraverso la creazione di placche di lava smaltata che diventano la tela su cui si intrecciano poesie e narrazioni delle detenute di Simone Fattal ai ritratti da bambine delle detenute e dei loro giovani affetti di Claire Tabouret. Credo però che sia superfluo soffermarsi sulle singole opere in un progetto così ampio che va esperito nel suo complesso, come suggerisce il titolo tratto da un frammento di poesia che riprende un antico testo sacro e una poesia elisabettiana. “Non ti amo con i miei occhi” (Shakespeare, Sonetto 141) risuona con i versetti 42.5 del Libro di Giobbe “I miei occhi ti hanno veduto”, «una dissolvenza incrociata, che sfuma in un’azione dove il vedere è sinonimo di toccare con lo sguardo, di abbracciare con l’occhio, di far dialogare la vista e la percezione. »

Visitare Con i miei occhi è una responsabilità, forse non per tutti, come scrive il Cardinale José Tolentino de Mendonça nel saggio Quando ti abbiamo visto?. «Farci carico della responsabilità che comporta il vedere con i propri occhi non ci consente di restare a osservare la storia blindati in un centro o inscritti in una zona di asserita neutralità che altro non è che la salvaguardia di una comfort zone. Guardare ci espone al rischio (che raramente è confortevole), ci propone contesti di itineranza e di interazione (che ci obbligano a decostruire tanti automatismi), ci avvicina, per citare Rimbaud, a “cose inaudite e innominabili”.»

ph. Marco Cremascoli

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