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24
luglio 2014
Dentro le pratiche degli anni ’70 Robert Overby tra memoria e identità
Progetti e iniziative
Seconda tappa in Italia di una mostra che tocca diversi musei europei. E soprattutto riscoperta di un artista, Robert Overby, capace di spaziare tra scultura, pittura e installazione. Al di là di articolazioni concettuali, ma ricca di elementi narrativi che riconducono lo spettatore dentro una dimensione umana. Che oscilla tra vitalità e decadenza, energia e memoria
di Paola Tognon
Chiude fra pochi giorni l’esposizione di Robert Overby, a cura di Alessandro Rabottini, presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. Ottima occasione per vedere, presso un’istituzione italiana, la prima mostra retrospettiva dedicata al lavoro dell’artista americano. Ma non l’ultima: la mostra organizzata in collaborazione con il Centre d’Art Contemporain di Ginevra che l’ha ospitata da febbraio ad aprile 2014, prosegue a settembre presso la Bergen Kunsthall in Norvegia e conclude il suo tour espositivo nel gennaio 2015 presso Le Consortium di Digione in Francia. Esempio positivo e costruttivo di sinergie che permettono di condividere ricerche e studi, interpretazioni e display espositivi, mostre e budget.
L’esposizione, la più ampia rassegna sino a oggi dedicata a Robert Overby, artista americano che non ha quasi mai esposto in vita il proprio lavoro, propone sotto il titolo “Opere 1969-1987” oltre 50 lavori provenienti da collezioni statunitensi ed europee che comprendono sculture, installazioni, dipinti, stampe e collage.
Robert Overby (1935 – 1993) nasce nell’Illinois e per gran parte della sua vita lavora a Los Angeles come graphic designer – come dimostra il suo logotipo per la Toyota in uso ancora oggi – e solo dalla fine degli anni ’60 opera anche come artista visivo sviluppando a partire dal 1969 un vasto corpus di lavori realizzati mediante una straordinaria sperimentazione di tecniche e materiali.
Tra i lavori più rappresentativi della sua produzione iniziale troviamo i calchi di elementi architettonici come porte, finestre e intere facciate di edifici che l’artista realizza con gomma, lattice e cemento. Opere dal forte impatto poetico e visivo che fondono tra loro scultura, pittura e installazione e che mostrano l’interesse dell’artista per i segni del tempo trasposti attraverso sistemi sperimentali di rappresentazione diventati a loro volta, oggi, testimoni silenti di forte impatto evocativo. Come le opere del 1971 per la Barclay House Series: 28 calchi di lattice e gomma realizzati a partire da una casa di due piani bruciata, testimonianza di una concezione della scultura intesa da Overby come medium che, al pari della fotografia, è in grado di registrare il trascorrere del tempo. A questi anni si lega la massima produzione dell’artista documentata in 336 to 1. August 1973 – July 1969, un libro autoprodotto da Overby e recentemente ristampato da JRP / Ringier – in cui i lavori sono ordinati secondo una cronologia inversa, cioè dal 1973 al 1969.
Ricchi di riferimenti che solo a posteriori, da un continente all’altro, viene spontaneo ricostruire (Claes Oldenburg primo fra tutti, Bruce Nauman, Gordon Matta-Clark e altri coetanei tra America ed Europa) il lavoro di Overby sembra discostarsi da queste analisi e raffronti critici per un atteggiamento che a distanza di decenni risale con forza la superficie delle sue opere per restituire un’autonomia e un governo dell’azione che si autoalimenta di ricerche intime e personali. Vicine nella sperimentazione e nella ricerca di una tridimensionalità capace di narrare una quotidianità che si muove tra arte e architettura, tra materie sintetiche e materiali tradizionali, l’opera di Overby appare però libera da affanni stilistici o da dichiarazioni d’intenti, scevra da articolazioni concettuali ma ricca di elementi narrativi che riconducono lo spettatore dentro una dimensione umana che oscilla tra vitalità e decadenza, tra energia e traccia. I suoi dipinti, che dal 1973 diventano la prima forma espressiva ne sono a seguire evoluzione e conseguenza: la descrizione dei corpi e dei volti, ricondotti per cromie così come attraverso fusioni di materiali organici e inorganici restituiscono la capacità di esprimere identità diverse e conviventi, di facciata e di sostanza, di consumo e di negazione. Un percorso che ci avvolge tra raffigurazioni di superficie e figurazioni pop, tra maschere e ritratti, tra sessualità e memoria, tra identità e trasformazione.
Questi e molti altri elementi che si compongono in questa mostra, disposta con un allestimento lineare nell’ordine cronologico e narrativo, ci offrono la possibilità di scoprire una figura d’Oltreoceano la cui opera, sconosciuta ai più, è fonte di analisi e riscontri critici e in parallelo occasione di visioni e riflessioni spontanee e immediate che sembrano trovare nel tempo trascorso più una vicinanza che una distanza.
È questa forse la qualità maggiore del progetto espositivo itinerante dedicato a Overby: la scoperta di un autore silente e discreto, impegnato su diverse attività in tutta la sua vita che, con un registro personale e intimo, ci trasmette una ricerca narrativa carica di tensioni identitarie di cui la materia scultorea, il disegno e il colore sono traccia e memoria. Qualità che s’inserisce nel filone di ricerche critiche e curatoriali che, conclamata dalla Biennale veneziana di Gioni, accompagna una predisposizione metodologica accolta da un sentire comune che oscilla tra la ricerca del nuovo e il recupero di ricerche e vicende che hanno avuto negli anni ’70 pratiche e sviluppi.
In questa direzione la mostra di Robert Overby è accompagnata da una monografia edita da Mousse Publishing che documenta più di centoquaranta lavori e include i testi di Andrea Bellini, Martin Clark, Robin Clark, Alison M. Gingeras, Terry R. Myers e Alessandro Rabottini e contiene la cronologia completa della vita dell’artista e della sua produzione redatta da Marianna Vecellio. Una sola nota finale: mostra e il catalogo sono realizzati con la collaborazione e la supervisione scientifica dell’Estate of Robert Overby di Los Angeles. Peccato però che il catalogo non accompagni la mostra sin dalla sua prima sede espositiva.