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exibinterviste – la giovane arte Umberto Chiodi
parola d'artista
Romanticismo neo-folk. Ancora un artista dichiaratamente alle prese con l’Ideale. Solida formazione intellettuale e un’invidiabile coerenza di vedute. Ha da poco lasciato l’Emilia per una lontana (almeno idealmente) Milano...
Dovendo presentare il mio lavoro con un’immagine parlerei di… Un Semaforo Interiore [con le maiuscole, n.d.r.].
In effetti è un lavoro per molti versi immediato, benché denso di riferimenti alla storia dell’arte e non solo. Quali sono gli artisti e i movimenti cui hai guardato con più interesse?
Di artisti ne ho amati e trascurati tanti. Dico trascurati perché alcuni mi hanno molto impressionato senza che poi riuscissi a dedicare loro il giusto approfondimento. La tv e Internet, che abituano all’immagine-flash, senza contesto, senza didascalia, aggravano la disattenzione; in più in Italia certi artisti storicizzati di fama internazionale non vengono valorizzati come meriterebbero. Penso per esempio a Füssli, o a William Blake… Parallelamente a questi, e ad altri giganti come Dürer, Leonardo, Klinger, Moreau, Böcklin, Picasso, Ernst, Bearsdley, Rops, mi hanno coinvolto e marchiato a fuoco certe illustrazioni per l’infanzia. Penso a John Tenniel, alla crudeltà di Heinrich Hoffmann, alle fantasie coloratissime di Antonio Rubino. Quel mondo naïf legato alla filastrocca e alla favola, che nasce come insegnamento morale nella tradizione popolare, e che diventa anche fumetto (penso a “Il Corriere dei piccoli” nei primi anni del Novecento, per esempio), si sovrappone nei miei riferimenti al mondo della stampa pubblicitaria fin de siècle e Decò, alla cartellonistica di Alfons Mucha o Marcello Dudovich. Sempre nell’ambito dell’arte applicata mi hanno appassionato le immaginette sacre antiche, quelle francesi soprattutto, e le vecchie foto-cartoline. Mi piacciono le fotografie di Lewis Carroll, le operazioni filmiche di David Lynch, di Matthew Barney… Gli artisti su cui mi sono soffermato e documentato di più sono i Simbolisti. Un contemporaneo che mi ha affascinato molto e di cui ho visto recentemente una mostra a Berlino è John Colemann. E sul tavolo in cucina, in questi giorni, ho la riedizione di Una settimana di bontà di Max Ernst.
Artisti si diventa o, alla fin fine, si nasce?
Essere un artista credo sia innanzitutto una condizione dell’anima. Non credo alla condizione dell’artista per caso. Io ho preso coscienza delle mie attitudini quando ho capito di avere esigenze diverse rispetto alle persone del mio ambiente di origine. Un ambiente-matrice con pochi stimoli, che ho sentito presto inadeguato per la mia visione delle cose e per la mia volontà di crescita. Se mi chiedi come questa attitudine sia diventata un lavoro, dico che forse ho sempre pensato che lo volesse diventare.
Formazione canonica?
Mi sono diplomato al Liceo Artistico di Bologna e ho frequentato il corso di pittura all’Accademia delle Belle Arti, sempre a Bologna. Il mio percorso è stato diretto e preciso, ma ho anche avuto interessi trasversali significativi: dalle lezioni di pianoforte a esperienze come aiuto scenografo; dalla collaborazione con scrittori alla frequentazione di gruppi di studio dell’Antroposofia.
Arti visive e attualità socio-politica possono guardarsi dritte negli occhi?
Oggi quando l’arte e l’attualità socio-politica si guardano dritte negli occhi solitamente scoppia il sensazionalismo. Forse l’arte contemporanea vive anche di questa balorda pubblicità, che confonde la grandiosità di un’opera con la grandiosità di uno scandalo e dà adito a grida inutili, in sostanza alla confusione. L’arte di mera denuncia socio-politica non mi interessa, perché anche se scaturisce da una volontà di ribellione non è capace di proporre l’Ideale. Forse questa è una grave mancanza dell’arte contemporanea generale nei confronti della società. Le condizioni sociali e culturali di un’epoca sono parte del processo creativo di qualsiasi artista, ma la vera opera d’arte è un riflesso capace di guardare oltre.
Chi scrive d’arte come si è espresso a proposito del tuo lavoro?
Ogni critico si è focalizzato su un particolare aspetto poetico o formale. Ognuno ha una propria linea di indagine che dipende dalla sensibilità, dal gusto personale e dalla formazione culturale… Ad esempio in Germania la critica ha puntato il dito sugli aspetti energetico-sessuali e sulle consonanze carrolliane; in Italia ci si è focalizzati sull’aspetto onirico-esoterico e pop-surrealista. Le interpretazioni sono su livelli di lettura diversi e tutte, finora, possono trovare un effettivo riscontro con la mia opera. Con i critici ho un buon rapporto anche se oggi nel mondo dell’arte esistono molti improvvisati e poca professionalità.
Una persona attualmente molto importante?
Il mio gallerista, Enzo Cannaviello, con il quale ho un rapporto di esclusiva. L’ho conosciuto un paio d’anni fa attraverso Alberto Zanchetta, giovane critico e amico. Mi confrontai in quell’occasione con l’esperienza e la professionalità di un vero gallerista, qualità che ritrovo oggi nel rapporto di collaborazione instaurato con il suo Studio d’Arte.
Hai scelto Milano. Una decisione sofferta?
Sono sempre vissuto nella campagna bolognese e l’esigenza di vivere la città era diventata forte. Ho scelto Milano per diverse ragioni, tra cui l’apertura alla scena internazionale. Non sapevo come la mia natura intimista avrebbe reagito alla realtà della folla, e di conseguenza come questo avrebbe influenzato il mio approccio al lavoro. Ora lo so e so anche che non tornerei più indietro.
Passi molte ore in studio?
I modesti studi che ho avuto sono diventati tutti la mia piccola stanza delle meraviglie. Quando sono arrivato a Milano e ho trovato un nuovo studio, quest’esigenza si è rafforzata per bilanciare il mio spaesamento, per continuare ad avere un riferimento ambientale sicuro. Un elemento capace di influenzarmi mentre lavoro è la musica. Cerco di sincronizzare le sonorità con il mio stato d’animo e viceversa. Purtroppo a Milano vincono spesso le sirene della polizia e i clacson delle auto…
Qual è la mostra migliore che hai fatto e perché?
La più esaustiva è stata la doppia personale dal titolo Asfodelo, con Gabriele Memola, allo Studio d’Arte Cannaviello. Cito questa non solo perché è la mostra più recente e rappresentativa del mio lavoro a oggi, ma anche perché si era creato una sorta di percorso guidato sulla metamorfosi (allestito in due sale separate). Le opere di Memola poeticamente embrionali ed eteriche culminavano in una raffigurazione iper-umana del corpo, mentre nella mia sala si entrava nel corpo stesso e nelle morfologie dell’inconscio.
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*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 48. Te l’eri perso? Abbonati!
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