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15
ottobre 2009
talent hunter Francesco Fonassi
parola d'artista
Classe 1986, studi all’Accademia di Venezia, membro del collettivo R.a.m. e workshop in spazi come il Castello di Rivoli. Usa diversi media ma va particolarmente forte col suono e le sue installazioni. In attesa della personale da Perugi...
Che libri che hai letto di recente?
All’ascolto di Jean-Luc Nancy, Gesti
d’aria e di pietra
di Georges Didi-Huberman e L’orizzonte negativo di Paul Virilio. Rileggo di
continuo racconti e raccolte di Borges e Pessoa. Un saggio di etologia e un
vecchio manuale di Condotta dei generatori di vapore, appartenuto a mio nonno.
Che
musica ascolti?
Dopo
i primi ascolti giovanili ho iniziato ad appassionarmi ai Sonic Youth e agli
Einstürzende Neubauten. La loro attitudine al noise, agli arrangiamenti low-fi
e alla sperimentazione mi ha portato negli ultimi anni a interessarmi al
panorama della musica contemporanea. Dalla musica elettroacustica ed
elettronica di Varèse, Xenakis, Schaeffer al teatro musicale di Kagel e
Tavener, dall’esperienza Fluxus di George Brecht, Bryan Gyson, John Cage alla
musica automatica del francese Pierre Bastienne, fino alle incursioni
ambientali di Alvin Curran, sul quale ho appena finito di scrivere la mia tesi.
Quali
sono le città che consiglieresti di visitare e perché?
Sto
bene ovunque e da nessuna parte, “lontano da me, in me esisto”, scriveva Pessoa. Ma sono molto
affezionato ai paesi dell’ex Jugoslavia, dove ho avuto modo di conoscere
persone molto interessanti e stringere legami forti, scambi e collaborazioni:
Belgrado e Sarajevo in particolare. Non mi sono mai spinto oltre, per ora, ma è
forte l’interesse per il Medio Oriente. In Europa: Berlino, Lisbona, Edimburgo.
I
luoghi che ti hanno particolarmente affascinato?
Interni
soffocanti ed esterni agorafobici, rotatorie e isole del traffico. Enormi
palazzi in stile sovietico. Sotterranei di castelli e fortezze, enormi cantieri
edili, trafori e impianti idraulici. Grandi superfici innevate, vaste zone
aride, paesaggi subacquei e soffitti stellati.
Quali
sono le mostre che hai visitato che ti hanno particolarmente colpito?
Negli
ultimi anni Tino Sehgal e Fischli & Weiss alla Fondazione Trussardi, Franco
Vaccari allo Spazio Oberdan a Milano; Gordon Matta-Clark a Siena, l’ultimo
lavoro di Antony Gormley per il Quarto plinto a Trafalgar Square, Londra. A
Berlino ricordo il lavoro di Edwin van der Heide, The Speed of Sound, nella vecchia cisterna d’acqua
di Prenzlauerberg, all’interno del quale, con un’amica tedesca, ho passato
l’intera giornata, registrando segmenti sonori e abitandone l’ambiente umido,
fino al tramonto. Ho avuto la fortuna d’incontrare e di osservare prima
dall’esterno, poi dall’interno del Centro Pompidou di Parigi, attraverso una
vetrata, l’accampamento de Les enfants de don quichotte: associazione francese di Augustin
Legrand. È stata l’espressione artistica più umana a cui abbia assistito,
sicuramente il miglior progetto (non) ospitato dal museo.
Quali
sono gli artisti del passato di cui nutri un particolare interesse?
Seppure
qualche tempo fa riconoscevo alcuni artisti come assoluti e unici, ora non la
penso più così. Ne cito comunque alcuni di cui apprezzo particolarmente il
lavoro: Santiago Sierra, Rachel Whiteread, Richard Long, Dan Graham, Pierre
Huyghe. Tornando un po’ indietro, Joseph Beuys e Robert Morris. Tutto quello
che li precede nella storia è un’altra storia. Tra i cineasti contemporanei amo
molto Werner Herzog, Peter Greenaway e David Lynch.
E
i giovani a cui ti senti particolarmente vicino, artisticamente parlando?
All’ascolto di Jean-Luc Nancy, Gesti
d’aria e di pietra
di Georges Didi-Huberman e L’orizzonte negativo di Paul Virilio. Rileggo di
continuo racconti e raccolte di Borges e Pessoa. Un saggio di etologia e un
vecchio manuale di Condotta dei generatori di vapore, appartenuto a mio nonno.
Che
musica ascolti?
Dopo
i primi ascolti giovanili ho iniziato ad appassionarmi ai Sonic Youth e agli
Einstürzende Neubauten. La loro attitudine al noise, agli arrangiamenti low-fi
e alla sperimentazione mi ha portato negli ultimi anni a interessarmi al
panorama della musica contemporanea. Dalla musica elettroacustica ed
elettronica di Varèse, Xenakis, Schaeffer al teatro musicale di Kagel e
Tavener, dall’esperienza Fluxus di George Brecht, Bryan Gyson, John Cage alla
musica automatica del francese Pierre Bastienne, fino alle incursioni
ambientali di Alvin Curran, sul quale ho appena finito di scrivere la mia tesi.
Quali
sono le città che consiglieresti di visitare e perché?
Sto
bene ovunque e da nessuna parte, “lontano da me, in me esisto”, scriveva Pessoa. Ma sono molto
affezionato ai paesi dell’ex Jugoslavia, dove ho avuto modo di conoscere
persone molto interessanti e stringere legami forti, scambi e collaborazioni:
Belgrado e Sarajevo in particolare. Non mi sono mai spinto oltre, per ora, ma è
forte l’interesse per il Medio Oriente. In Europa: Berlino, Lisbona, Edimburgo.
I
luoghi che ti hanno particolarmente affascinato?
Interni
soffocanti ed esterni agorafobici, rotatorie e isole del traffico. Enormi
palazzi in stile sovietico. Sotterranei di castelli e fortezze, enormi cantieri
edili, trafori e impianti idraulici. Grandi superfici innevate, vaste zone
aride, paesaggi subacquei e soffitti stellati.
Quali
sono le mostre che hai visitato che ti hanno particolarmente colpito?
Negli
ultimi anni Tino Sehgal e Fischli & Weiss alla Fondazione Trussardi, Franco
Vaccari allo Spazio Oberdan a Milano; Gordon Matta-Clark a Siena, l’ultimo
lavoro di Antony Gormley per il Quarto plinto a Trafalgar Square, Londra. A
Berlino ricordo il lavoro di Edwin van der Heide, The Speed of Sound, nella vecchia cisterna d’acqua
di Prenzlauerberg, all’interno del quale, con un’amica tedesca, ho passato
l’intera giornata, registrando segmenti sonori e abitandone l’ambiente umido,
fino al tramonto. Ho avuto la fortuna d’incontrare e di osservare prima
dall’esterno, poi dall’interno del Centro Pompidou di Parigi, attraverso una
vetrata, l’accampamento de Les enfants de don quichotte: associazione francese di Augustin
Legrand. È stata l’espressione artistica più umana a cui abbia assistito,
sicuramente il miglior progetto (non) ospitato dal museo.
Quali
sono gli artisti del passato di cui nutri un particolare interesse?
Seppure
qualche tempo fa riconoscevo alcuni artisti come assoluti e unici, ora non la
penso più così. Ne cito comunque alcuni di cui apprezzo particolarmente il
lavoro: Santiago Sierra, Rachel Whiteread, Richard Long, Dan Graham, Pierre
Huyghe. Tornando un po’ indietro, Joseph Beuys e Robert Morris. Tutto quello
che li precede nella storia è un’altra storia. Tra i cineasti contemporanei amo
molto Werner Herzog, Peter Greenaway e David Lynch.
E
i giovani a cui ti senti particolarmente vicino, artisticamente parlando?
M’interessa
il lavoro di alcuni giovani come Giorgio Andreotta Calò, Cyprien Gaillard,
Nikola Uzonovsky, Ivan Mudov, Renata Lucas, il collettivo francese Campement
Urbain e gli italiani Alterazioni Video. Sono artisti estranei, nei contenuti,
al circolo autoreferenziale del sistema arte contemporanea. Credo di
condividere, del loro lavoro e di altri che mi sono sfuggiti, l’attenzione e la
libertà nell’infiltrarsi in tessuti urbani e suburbani, intervenendo e
sconvolgendo, talvolta in modo silenzioso, meccanismi, dinamiche di percezione
di massa; parlano di individuo, di spazio pubblico, di memoria collettiva,
senza coinvolgere definizioni quali arte politica e attivismo sociale. Penso
che la cultura sia naturalmente politica a prescindere, e non apprezzo chi fa
di queste pratiche una bandiera stracolma di retorica. Non ha più a che fare
con l’arte.
Tra
gli artisti che hanno lavorato molto nella ricerca sonora a partire dagli anni
‘60, quale ritieni sia più innovativo?
Sicuramente
l’esperienza Fluxus. L’apertura artistica al gesto collettivo, alla
partecipazione e alla fruizione attiva del pubblico all’ascolto è la più
spiazzante e fruttuosa, a mio parere, del secolo scorso. Amo la naturalezza e
l’incondizionata ironia dell’agire e del creare, dove il suono diventa
pretesto, non fine estetizzante. Dove il performer potrebbe essere chiunque, o
forse no.
Passiamo
ora al tuo lavoro. Che formazione hai?
Guardo
alla mia formazione come alla più noiosa e banale, Liceo artistico e Accademia
di Belle Arti. Avrei preferito affrontare studi più specifici, forse
scientifici, o prettamente teorici. È difficile oggi occuparsi di arte
contemporanea se non si è cresciuti da un’altra parte. Si rischia di finire a
credere che l’arte esista solo dove la si chiama così.
Quanto
la preparazione accademica influenza il percorso artistico individuale?
Paradossalmente
il tempo trascorso nell’ambiente accademico veneziano, sebbene me ne sia sempre
in parte distaccato, mi ha formato all’inverso: salvo poche eccezioni e
incontri stimolanti, ho imparato esattamente ciò che voglio evitare. La
politica reazionaria d’individualismo generale e di mancanza d’interesse verso
l’altrui lavoro, la fallibilità di ogni attività formativa proposta da alcuni
validi docenti, ostacolati dall’istituzione ancora legata alla tradizione
pittorica più remota, mi hanno insegnato che per orientarsi nel mondo dell’arte
contemporanea bisogna saper uscire da quest’isola nell’isola, che è l’Accademia
di Belle Arti.
Sei
membro dal 2008 del collettivo R.a.m. Di cosa si tratta?
Il
collettivo R.a.m. è un insieme di persone che hanno competenze ed esperienze
delle più disparate, dalla comunicazione multimediale alla musica elettronica,
passando per tecnici del suono e artisti visivi. Le sue potenzialità sono la
contaminazione e lo scambio di idee. Stiamo lavorando attorno a questioni
legate alla creazione di ambienti acustici sensibili, performance sonore e
sonorizzazioni live di film-documentari.
Come
descriveresti la tua ricerca?
Condizioni
di isolamento condivisibile, conseguenze dell’ascolto, possibilità di incontro
e di un sentire comune si recepiscono negli intervalli tra le azioni e le
persone che compiono queste azioni. Io cerco di creare delle condizioni in cui
questi scarti, questi chiasmi della comunicazione, vengono a galla, talvolta
semplicemente evocandoli, talvolta riuscendo a farli recepire a chi decide di
assecondare il mio lavoro. Ad esempio in Meeting site (possibility), un progetto che ho realizzato
quest’anno a Edimburgo, cinque persone hanno trovato una chiave e una busta con
indicazioni visive per raggiungere un luogo, un vecchio cantiere, dove una
cassetta di sicurezza era stata installata. Tutte le chiavi aprivano la
cassetta. Non ho mai saputo se queste persone l’abbiano mai cercata o trovata,
so solo che cinque mesi dopo la cassetta non è più là, è stata rimossa.
Operazione inversa era Intrusioni postali del 2007, dove una serie di spedizioni postali
contenenti un registratore acceso e isolato dall’esterno mettevano in connessione
e designavano traiettorie sonore tra me e i destinatari delle spedizioni (non
so se è un caso, ma pensandoci ora erano cinque).
C’è
una tua opera a cui ti senti particolarmente legato? Me ne vuoi parlare?
Si
tratta di un ciclo di operazioni chiamato Flow to Equity cycle, avviato a Belgrado nel 2007 e in
realtà non ancora terminato. to Collect, paziente raccolta di gocce d’acqua dagli scoli di
impianti di condizionamento e Loss-Gain, dove l’evento sonoro della perdita viene
decontestualizzato e riproposto come protagonista perentorio nei sotterranei
del museo militare di Belgrado, sono i lavori a cui sono più affezionato. Rain
alarm (external use only), ready
made acustico per cortili, e Flow to Equity, strumento sonoro modulare
adesaurimento per uso pubblico, installato per la prima volta in un nuovo
spazio dell’Arsenale di Venezia nel 2008 e con il quale è stato registrato un
disco chiamato Drop-machine Ep. Diciamo che è diventato il mio strumento. Mi ha portato
a collaborare con Elma Selman, artista di Sarajevo attiva nella danza
contemporanea, che ha lavorato a una coreografia su una composizione,
realizzata con il “gocciofono” e presentata alla Biennale dei giovani del
Mediterraneo a Skopje, in Macedonia. Porteremo la stessa performance (Prika
u Trenutku) in
teatro, questa volta suonata dal vivo, anche a Venezia e a Roma a novembre.
Ti
senti a tuo agio con la definizione di artista sonoro?
Non
credo che categorie in cui inscatolare forzatamente un tipo di ricerca siano
adeguate. A dire la verità non mi sento a mio agio neanche con la definizione
“artista”.
Che
responsabilità ha oggi un artista?
Vorrei
citare Bertolt Brecht e uno sconosciuto di cui ho letto una frase su un muro: “D’improvviso
si aveva la possibilità di dire tutto a tutti, ma, a pensarci bene, non si
aveva nulla da dire”;
“Non ho niente da dire, e voglio urlarlo!”. Sono due condizioni affini. Credo che la
responsabilità dell’artista sia di fare propri linguaggi comuni, attraverso cui
veicolare senso, e intaccare la sensibilità collettiva, suggerendo modalità
attraverso le quali la comunità possa farlo. In questo senso penso che il ruolo
dell’arte contemporanea sia urlare, in silenzio, insiemi di possibilità.
il lavoro di alcuni giovani come Giorgio Andreotta Calò, Cyprien Gaillard,
Nikola Uzonovsky, Ivan Mudov, Renata Lucas, il collettivo francese Campement
Urbain e gli italiani Alterazioni Video. Sono artisti estranei, nei contenuti,
al circolo autoreferenziale del sistema arte contemporanea. Credo di
condividere, del loro lavoro e di altri che mi sono sfuggiti, l’attenzione e la
libertà nell’infiltrarsi in tessuti urbani e suburbani, intervenendo e
sconvolgendo, talvolta in modo silenzioso, meccanismi, dinamiche di percezione
di massa; parlano di individuo, di spazio pubblico, di memoria collettiva,
senza coinvolgere definizioni quali arte politica e attivismo sociale. Penso
che la cultura sia naturalmente politica a prescindere, e non apprezzo chi fa
di queste pratiche una bandiera stracolma di retorica. Non ha più a che fare
con l’arte.
Tra
gli artisti che hanno lavorato molto nella ricerca sonora a partire dagli anni
‘60, quale ritieni sia più innovativo?
Sicuramente
l’esperienza Fluxus. L’apertura artistica al gesto collettivo, alla
partecipazione e alla fruizione attiva del pubblico all’ascolto è la più
spiazzante e fruttuosa, a mio parere, del secolo scorso. Amo la naturalezza e
l’incondizionata ironia dell’agire e del creare, dove il suono diventa
pretesto, non fine estetizzante. Dove il performer potrebbe essere chiunque, o
forse no.
Passiamo
ora al tuo lavoro. Che formazione hai?
Guardo
alla mia formazione come alla più noiosa e banale, Liceo artistico e Accademia
di Belle Arti. Avrei preferito affrontare studi più specifici, forse
scientifici, o prettamente teorici. È difficile oggi occuparsi di arte
contemporanea se non si è cresciuti da un’altra parte. Si rischia di finire a
credere che l’arte esista solo dove la si chiama così.
Quanto
la preparazione accademica influenza il percorso artistico individuale?
Paradossalmente
il tempo trascorso nell’ambiente accademico veneziano, sebbene me ne sia sempre
in parte distaccato, mi ha formato all’inverso: salvo poche eccezioni e
incontri stimolanti, ho imparato esattamente ciò che voglio evitare. La
politica reazionaria d’individualismo generale e di mancanza d’interesse verso
l’altrui lavoro, la fallibilità di ogni attività formativa proposta da alcuni
validi docenti, ostacolati dall’istituzione ancora legata alla tradizione
pittorica più remota, mi hanno insegnato che per orientarsi nel mondo dell’arte
contemporanea bisogna saper uscire da quest’isola nell’isola, che è l’Accademia
di Belle Arti.
Sei
membro dal 2008 del collettivo R.a.m. Di cosa si tratta?
Il
collettivo R.a.m. è un insieme di persone che hanno competenze ed esperienze
delle più disparate, dalla comunicazione multimediale alla musica elettronica,
passando per tecnici del suono e artisti visivi. Le sue potenzialità sono la
contaminazione e lo scambio di idee. Stiamo lavorando attorno a questioni
legate alla creazione di ambienti acustici sensibili, performance sonore e
sonorizzazioni live di film-documentari.
Come
descriveresti la tua ricerca?
Condizioni
di isolamento condivisibile, conseguenze dell’ascolto, possibilità di incontro
e di un sentire comune si recepiscono negli intervalli tra le azioni e le
persone che compiono queste azioni. Io cerco di creare delle condizioni in cui
questi scarti, questi chiasmi della comunicazione, vengono a galla, talvolta
semplicemente evocandoli, talvolta riuscendo a farli recepire a chi decide di
assecondare il mio lavoro. Ad esempio in Meeting site (possibility), un progetto che ho realizzato
quest’anno a Edimburgo, cinque persone hanno trovato una chiave e una busta con
indicazioni visive per raggiungere un luogo, un vecchio cantiere, dove una
cassetta di sicurezza era stata installata. Tutte le chiavi aprivano la
cassetta. Non ho mai saputo se queste persone l’abbiano mai cercata o trovata,
so solo che cinque mesi dopo la cassetta non è più là, è stata rimossa.
Operazione inversa era Intrusioni postali del 2007, dove una serie di spedizioni postali
contenenti un registratore acceso e isolato dall’esterno mettevano in connessione
e designavano traiettorie sonore tra me e i destinatari delle spedizioni (non
so se è un caso, ma pensandoci ora erano cinque).
C’è
una tua opera a cui ti senti particolarmente legato? Me ne vuoi parlare?
Si
tratta di un ciclo di operazioni chiamato Flow to Equity cycle, avviato a Belgrado nel 2007 e in
realtà non ancora terminato. to Collect, paziente raccolta di gocce d’acqua dagli scoli di
impianti di condizionamento e Loss-Gain, dove l’evento sonoro della perdita viene
decontestualizzato e riproposto come protagonista perentorio nei sotterranei
del museo militare di Belgrado, sono i lavori a cui sono più affezionato. Rain
alarm (external use only), ready
made acustico per cortili, e Flow to Equity, strumento sonoro modulare
adesaurimento per uso pubblico, installato per la prima volta in un nuovo
spazio dell’Arsenale di Venezia nel 2008 e con il quale è stato registrato un
disco chiamato Drop-machine Ep. Diciamo che è diventato il mio strumento. Mi ha portato
a collaborare con Elma Selman, artista di Sarajevo attiva nella danza
contemporanea, che ha lavorato a una coreografia su una composizione,
realizzata con il “gocciofono” e presentata alla Biennale dei giovani del
Mediterraneo a Skopje, in Macedonia. Porteremo la stessa performance (Prika
u Trenutku) in
teatro, questa volta suonata dal vivo, anche a Venezia e a Roma a novembre.
Ti
senti a tuo agio con la definizione di artista sonoro?
Non
credo che categorie in cui inscatolare forzatamente un tipo di ricerca siano
adeguate. A dire la verità non mi sento a mio agio neanche con la definizione
“artista”.
Che
responsabilità ha oggi un artista?
Vorrei
citare Bertolt Brecht e uno sconosciuto di cui ho letto una frase su un muro: “D’improvviso
si aveva la possibilità di dire tutto a tutti, ma, a pensarci bene, non si
aveva nulla da dire”;
“Non ho niente da dire, e voglio urlarlo!”. Sono due condizioni affini. Credo che la
responsabilità dell’artista sia di fare propri linguaggi comuni, attraverso cui
veicolare senso, e intaccare la sensibilità collettiva, suggerendo modalità
attraverso le quali la comunità possa farlo. In questo senso penso che il ruolo
dell’arte contemporanea sia urlare, in silenzio, insiemi di possibilità.
talent hunter è una rubrica diretta da daniele perra
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 60. Te l’eri perso? Abbonati!
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