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21
aprile 2015
Il brasiliano di Lampedusa
Il fatto
All'indomani della tragedia del Canale di Sicilia è l'arte ad indagare il problema della migrazione, e del desiderio, nella società contemporanea. È il progetto “Lampedusa”, che Vik Muniz presenta alla Biennale. Forse la vera rappresentanza dell'Italia in laguna
di redazione
Una barca, apparentemente di carta, galleggerà in laguna. Sarà fatta della riproduzione di un giornale italiano, anche se ancora non si sa quale, stampato il 4 ottobre 2013, giorno successivo alla tragedia di Lampedusa, in cui morirono oltre 330 esseri umani. Se vi sembra nulla in confronto alla tragedia dell’altro ieri sappiate che questa – e non ce ne voglia nessuno – sarà probabilmente l’installazione riguardante l’italianissimo tema degli sbarchi dei clandestini più forte in una manifestazione come la Biennale. Peccato che a produrla, ancora una volta, non sia un artista del Belpaese, ma il grande brasiliano Vik Muniz, che da anni si occupa coscientemente – attraverso la sua pratica artistica – del pianeta, della povertà, della restituzione della dignità agli ultimi, che siano appunto i clandestini o i bambini delle favelas costretti a scavare nelle discariche per racimolare qualcosa da vendere o da portarsi addosso.
Ieri avevamo iniziato il nostro “Fatto” con l’invito a riflettere: Muniz ci permette di interrogarci, come lui stesso ha spiegato, «sul paesaggio mediatico e la produzione ossessiva del desiderio. Per anni produrre cultura ha significato lavorare sulla nostra esperienza e sulla moderazione dei nostri impulsi più intimi. Oggi si va in un’altra direzione e il desiderio precede il significato».
Un intervento politico, sociale, poetico coerente con la pratica che l’artista brasiliano (classe 1961) ha sviluppato in questi anni. Osservando le masse di cubani verso le coste americane, chiedendosi da dove derivasse l’idea di “buono” che permetteva a molti di mettere in gioco la propria vita. «L’articolo di giornale è un modo per mediare tra ciò che si vuole dire e ciò che è lì, ora; è un modo per parlare del tema, un modo per iniziare la conversazione».
Una conversazione che l’Italia non ha mai particolarmente preso a cuore, come se l’affare dello sfaldamento di interi Paesi in fuga non fosse affare nostro, o dell’Europa, o di quel lato del globo nel quale si cerca il bene. E che sempre più spesso sembra offrire barche di carta anche ai suoi stessi abitanti.
In tutti i casi, stavolta, abbiamo trovato un altro artista italiano in Biennale. Colui che – con la sola potenza della sua barchetta e delle domande che si porta appresso – avrebbe splendidamente potuto rappresentare il nostro Paese e la sua crisi. (MB)