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L’intervista/Claire Fontaine Che cos’è il contemporaneo? Riciclare
Progetti e iniziative
Il collettivo Claire Fontaine inaugura il nuovo corso del Museion di Bolzano. La mostra Macchinazioni propone video, sculture e altre opere che, attraverso prelievi e rielaborazioni “ready-made”, raccontano guasti italiani e del mondo globale. Senza inventare niente di nuovo, ma per glorificare l'istante qualunque. Oltre un'inutile soggettività e per "un'arte diventata un luogo per rifugiati politici" [di Paola Tognon]
di Paola Tognon
Claire Fontaine nasce come collettivo di artisti nel 2004 a Parigi assumendo il nome di una marca francese di quaderni. Ma chi è veramente Claire Fontaine e quale è la storia dei suoi componenti?
«Claire Fontaine nasce come uno spazio condiviso cui si è deciso di dare il nome di una persona di nazionalità francese e di sesso femminile. Essere donna ed essere autoctona nel mondo dell’arte possono essere degli handicap e ci sembrava interessante partire da questa situazione. La decisione è stata proprio creare ed alimentare uno spazio di desoggettivazione, in cui le opere che prendevano forma non sarebbero state il risultato di una o più soggettività addizionate, perché altrimenti a quel punto avremmo potuto firmare con i nostri nomi, ma sarebbero state qualcosa che nessuno dei componenti di Claire Fontaine avrebbe creato se questo spazio non fosse esistito. È per questo che le nostre biografie individuali non sono importanti, l’arte contemporanea adora i pettegolezzi, i bei giovani, le storie trasgressive, da noi non c’è nulla di tutto questo, solo un lavoro paziente per disfare il legame pernicioso tra opera e biografia al tempo della società dello spettacolo estremo».
Claire Fontaine si presenta come “un artista ready-made” con un chiaro riferimento alla storia dell’arte del XX secolo. Il collettivo dichiara di basare parte del suo lavoro anche sul principio di somiglianza e ripresa nei confronti delle opere di altri artisti. Quale è l’obiettivo di questa ri-messa in circolazione?
«Insistere sul fatto che le nostre condizioni di sviluppo materiale e soggettivo sono quasi completamente standardizzate e la feticizzazione della originalità individuale è il velo pietoso che vorrebbe nascondere questo stato di cose. L’idea dell’artista ready-made è strettamente legata all’idea della singolarità qualunque che si trova in Agamben, che a sua volta noi leghiamo all’idea deleuziana del documentario come la glorificazione dell’istante qualunque, il prelievo di un momento non prezioso da una vita non preziosa che eppure diventa appassionante. Oggi ciò che è davvero contemporaneo è il riciclaggio, la rielaborazione di elementi pre-esistenti. La cultura ha sempre funzionato così, l’idea dell’istruzione stessa si basa su un principio di assimilazione di contenuti vecchi per poi ottenere idee nuove. Oggi questo processo è più massificato e in un certo senso più democratico che in passato. L’arte rimane forse l’ultima roccaforte dell’idea del genio creatore e dell’assurda mitologia che la accompagna».
Macchinazioni è il titolo di questa mostra a Museion. Macchine o giochi di potere? Recessione o rivoluzione?
«La mostra è basata sulla macchina come metafora politica. Esiste anche la possibilità di leggere l’intera mostra come una macchinazione, allora in quel caso le opere vanno lette alla luce del video The Assistants, che è la chiave di volta della nostra presentazione, perché la questione della traduzione e il ruolo dello straniero sono il suo centro sommerso. Recessione e rivoluzione possono andare insieme, perché no»?
Quella a Museion è la vostra prima mostra in un’istituzione italiana. Come mai, considerando anche che un componente di Claire Fontaine è italiano? Qualche anno fa avete già realizzato proprio a Bolzano uno dei vostri primi lavori in ambito pubblico. Che esperienza è stata?
«Le ragioni per cui si è invitati da delle istituzioni o non lo si è, sono misteriose. Il fatto che parte di Claire Fontaine sia italiana non vuol dire molto, un’altra parte è britannica ed esponiamo poco a Londra e in Gran Bretagna. A Bolzano in effetti Claire Fontaine è stata invitata molto presto, nel 2006, ad una mostra collettiva nel vecchio Museion curata da Letizia Ragaglia intitolata Group Therapy. Parallelamente siamo stati invitati nel cubo di Garutti che è uno spazio fuori dalle mura del museo dove abbiamo proposto un progetto molto minimale. Il cubo è nel mezzo di una piazza verde e di un parco giochi, è un “oggetto” molto presente nella vita degli abitanti del quartiere. Noi volevamo rimanere discreti senza imporre forme troppo invadenti, proponendo pochi elementi che potessero provocare una riflessione. Abbiamo esposto due pannelli di cartone su cui erano state bruciate le frasi “Siamo tutti singolarità qualunque” e “I love communism”. Con questo progetto volevamo dare un segnale di speranza agli abitanti di un’area in cui sui muri fioriscono scritte fasciste inneggianti al peggior razzismo e alla miseria umana più profonda. All’esterno del cubo c’era poi un testo breve scritto da noi intitolato “Siamo tutti singolarità qualunque” sul comunismo come esperienza esistenziale di liberazione da non confondere con i regimi totalitari che si sono dati questo nome usurpandolo. Gruppi di persone di estrema destra non hanno apprezzato il progetto, vandalizzando l’esterno dello spazio espositivo e distruggendo i testi che avevamo lasciato in distribuzione libera davanti al cubo. Hanno cercato di far censurare il progetto senza riuscirci, poi sono andati – forse per la prima volta – a Museion, dove hanno trovato che un’opera di Goldiechiari poteva essere presa di mira e sono riusciti a farla togliere dalla mostra».
Un sogno nel cassetto?
«Che le cose cambino per davvero».
Bolzano, Parigi, Bergamo, febbraio 2012 Claire Fontaine e Paola Tognon
fino al 13 maggio 2012
a cura di Letizia Ragaglia
Bolzano, Museion