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18
dicembre 2007
fino al 31.I.2008 La città che sale Roma, Macro Future
roma
Secondo tentativo improduttivo. Un’opera futurista rievocata come pretesto. Tensioni, contraddizioni ma soprattutto imprecisioni. In un rapporto fra arte e architettura non sempre livellato...
La città che sale, opera di Umberto Boccioni del 1910, concentrava una serie di tensioni e contraddizioni che Danilo Eccher descrive come “il simbolo di un’epoca ma anche un tema con cui oggi è necessario misurarsi, il tema della leggibilità del proprio futuro, gli auspici e le ansie, l’irrefrenabile desiderio di precipitarsi nell’ignoto e la fragile necessità di salvaguardare una memoria, un’identità”.
Partendo dal titolo e dalle suggestioni dell’opera futurista, dopo un test non completamente riuscito a Benevento, la mostra arriva a Roma con le stesse intenzioni e le ottime premesse teoriche, ma purtroppo con i medesimi impacci pratici. Così, la volontà di Eccher e Odile Decq di stabilire un equilibrato rapporto fra arte e architettura -attraverso la distinzione tra costruzione utopica, costruzione sociale e costruzione dell’instabilità- diventa stranamente un evidente predominio della seconda, ma soprattutto un incomprensibile isolamento della prima.
In questo senso, lungo il percorso della mostra, nella maggior parte dei casi l’architettura è trattenuta nel suo versante più strettamente estetico, come vaghi ricordi di un’immaginazione avveniristica che resta impassibile di fronte alla realtà frenetica che sostiene quotidianamente. Se il ritratto di Dorian Gray invecchiava al posto del personaggio, qui è il reale a degradarsi mentre si celebra eternamente l’idealizzazione dell’impronta sulla fotografia ingrandita. E in questo contesto, i lavori di alcuni dei nomi più affermati del panorama artistico deambulano isolati alla ricerca di un luogo dover poter respirare, dover poter trasmettere senza interferenze e misurarsi con la capacità di interagire e modificare l’ambiente circostante.
Gregor Schneider sorprende con Doppelgarage, un’invogliante installazione che propone un garage, rigoroso fino alla peculiarità olfattiva, mentre l’attesa minimale e inaspettata di Elmgreen & Dragset si confronta con la critica sociale dei concettuali Ilya & Emilia Kabakov. Ma nella sala a fronte, la confusione diventa disorientante: l’installazione di Hans Op de Beeck, composta da un grande modello Accumulation e un video Building interamente realizzato al computer, o il suggestivo Tappeto volante di Stalker insieme alla ricerca di Jonh Bock, al confine tra performance e installazione, rimangono emarginati e privi di collegamento con la costruzione utopica di Luca Pancrazzi, ingegnere di un micromondo sempre in frenetica attività, o con lo squilibrio di Massimo Bartolini, che svolazza fino al soffitto per cercare qualche sorta di autonomia. Di conseguenza, se la mostra congettura una visione del futuro o almeno prova a individuare qualche traccia di ciò che sarà la città di domani, il risultato sembra evidenziarsi innanzitutto celato dietro le trappole di Andreas Slominski o nell’evidente precarietà di Valery Koshlyakov.
Così, nella città a venire si rivela una preoccupante confusione di idee, obiettivi e progetti, in un processo di sviluppo contraddittorio e ambivalente. Che potrebbe determinare la scomparsa fisica e mentale dell’uomo contemporaneo.
Partendo dal titolo e dalle suggestioni dell’opera futurista, dopo un test non completamente riuscito a Benevento, la mostra arriva a Roma con le stesse intenzioni e le ottime premesse teoriche, ma purtroppo con i medesimi impacci pratici. Così, la volontà di Eccher e Odile Decq di stabilire un equilibrato rapporto fra arte e architettura -attraverso la distinzione tra costruzione utopica, costruzione sociale e costruzione dell’instabilità- diventa stranamente un evidente predominio della seconda, ma soprattutto un incomprensibile isolamento della prima.
In questo senso, lungo il percorso della mostra, nella maggior parte dei casi l’architettura è trattenuta nel suo versante più strettamente estetico, come vaghi ricordi di un’immaginazione avveniristica che resta impassibile di fronte alla realtà frenetica che sostiene quotidianamente. Se il ritratto di Dorian Gray invecchiava al posto del personaggio, qui è il reale a degradarsi mentre si celebra eternamente l’idealizzazione dell’impronta sulla fotografia ingrandita. E in questo contesto, i lavori di alcuni dei nomi più affermati del panorama artistico deambulano isolati alla ricerca di un luogo dover poter respirare, dover poter trasmettere senza interferenze e misurarsi con la capacità di interagire e modificare l’ambiente circostante.
Gregor Schneider sorprende con Doppelgarage, un’invogliante installazione che propone un garage, rigoroso fino alla peculiarità olfattiva, mentre l’attesa minimale e inaspettata di Elmgreen & Dragset si confronta con la critica sociale dei concettuali Ilya & Emilia Kabakov. Ma nella sala a fronte, la confusione diventa disorientante: l’installazione di Hans Op de Beeck, composta da un grande modello Accumulation e un video Building interamente realizzato al computer, o il suggestivo Tappeto volante di Stalker insieme alla ricerca di Jonh Bock, al confine tra performance e installazione, rimangono emarginati e privi di collegamento con la costruzione utopica di Luca Pancrazzi, ingegnere di un micromondo sempre in frenetica attività, o con lo squilibrio di Massimo Bartolini, che svolazza fino al soffitto per cercare qualche sorta di autonomia. Di conseguenza, se la mostra congettura una visione del futuro o almeno prova a individuare qualche traccia di ciò che sarà la città di domani, il risultato sembra evidenziarsi innanzitutto celato dietro le trappole di Andreas Slominski o nell’evidente precarietà di Valery Koshlyakov.
Così, nella città a venire si rivela una preoccupante confusione di idee, obiettivi e progetti, in un processo di sviluppo contraddittorio e ambivalente. Che potrebbe determinare la scomparsa fisica e mentale dell’uomo contemporaneo.
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angel moya garcia
mostra visitata il 6 novembre 2007
dal 25 ottobre 2007 al 31 gennaio 2008
La città che sale. We try to build the future
a cura di Danilo Eccher e Odile Decq
Macro Future – Ex Mattatoio
Piazza Orazio Giustiniani (zona Testaccio) – 00153 Roma
Orario: da martedì a domenica ore 16-24; festivi ore 16-24
Ingresso: € 1
Info: tel. +39 06671070400; macro@comune.roma.it; www.macro.roma.museum
[exibart]
attento che se continui così ti tirano le orecchie