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‘A Line Made by Walking’: Daniele Girardi e Emanuele Gerosa raccontano
Arte contemporanea
di Silvia Conta
Il progetto “A Line Made by Walking“, a cura di Jessica Bianchera, Pietro Caccia Dominioni e Gabriele Lorenzoni è entrato nel vivo con la residenza artistica di Daniele Girardi in Val di Non, in Trentino, lo scorso luglio. Con lui, a documentare una parte di questa esperienza, il regista Emanuele Gerosa.
Gli esiti di questa residenza, che per Girardi rappresenta un approccio diverso alla wilderness rispetto a quello su cui lavora solitamente, saranno esposti nella primavera del 2021 in quattro castelli della Val di Non assieme a opere di porterà opere di Richard Long, Hamish Fulton, Ron Griffin.
Intervista a Daniele Girardi
Solitamente ti immergi nella natura selvaggia, lontano da zone antropizzate, in questo caso la situazione è diversa. Quali sono le principali differenze tra le residenze che svolgi abitualmente e quella in corso?
«Le mie immersioni nella natura sono caratterizzate da lunghi periodi di esplorazione nelle aree wilderness dove l’attività antropica è minima o spesso assente. La Val di Non è una zona molto popolata e ricca di coltivazioni: nel più stretto senso del termine crea “paesaggio”, genera una percezione sensoriale attraverso la quale l’uomo si rapporta con la natura. Bastano però brevi spostamenti dai percorsi più noti per ritrovarsi in boschi fitti, canyon primordiali, cime solitarie. Una scoperta inaspettata sono stati gli attraversamenti in canoa dei canyon del Lago di Santa Giustina: vere proprie vie d’accesso a un ambiente primordiale, segreto; corridoi d’acqua che scorrono ai piedi e all’interno di verticali pareti rocciose. Un paesaggio primario che pur trovandosi nel pieno della valle, è così lontano da un’idea di civiltà da apparire più come un eremo fluviale inaccessibile.
Diversamente dalle precedenti esplorazioni, inoltre, nel caso di “A line made by walking” è stato un progetto di mostra a determinare la residenza, e non viceversa. Questa penso sia la differenza più sostanziale e rimarchevole, e per questo sin dall’inizio è stata consapevolmente strutturata su un diverso agire, che non snatura i principi della mia pratica ma, piuttosto, li mette alla prova.
Dopotutto, il termine chiave del mio lavoro è l’esperienza, intesa come un agire asistematico di cui si conosce il punto di partenza ma non le evoluzioni successive, affidate al momento, al qui e ora. In questo caso, quindi, le differenze (compresa la presenza dei curatori in una giornata di cammino o del regista Emanuele Gerosa) rispetto a residenze precedenti sono da intendersi come nuove sfide e possibilità, che contribuiscono ad arricchire l’esperienza stessa, motivandola o destabilizzandola».
Quali sono, invece, gli aspetti del tuo approccio alla natura e al suo “attraversamento” che rimangono immutati?
«Ogni viaggio, ogni spostamento non segue mai un cliché ripetibile e questo non solo è un valore aggiunto al percorso, ma è anche una costante nella mia ricerca e nel mio approccio alla natura, al mondo. Ricercare il sublime o uno stato di smarrimento e silenzio diventa allora un processo di cammino interiore, che ha a che vedere con il dove solo in parte.
Da qualche anno vivo al limite di un bosco, lo attraverso quotidianamente ma trovo sempre qualcosa di inaspettato e imprevedibile: spesso osserviamo le cose per come siamo, non per come e dove sono. Penso a Henry David Thoreau quando, dalla sua famosa capanna situata a poche centinaia di metri da un centro abitato, scriveva: “Si può trovare la potenza dell’oceano anche in un piccolo specchio d’acqua” (Walden. Vita nei boschi, 1854). Questa consapevolezza sta alla base del mio lavoro e delle mie scelte di vita. A partire dal progetto The Silent Subversion (2018, a cura di Elena Forin) la mia ricerca non si basa, infatti, esclusivamente sull’esplorazione delle aree selvagge e incontaminate, ma riflette la volontà di intraprendere e verificare, attraverso la pratica artistica, modelli e ritmi di vita alternativi a quelli diffusi nella società contemporanea con una sostanziale coincidenza tra arte e vita in cui ogni evento, ogni esperienza vissuta consapevolmente contribuisce alla costruzione di un’epica del quotidiano che è essa stessa in continua trasformazione, aperta a ogni possibilità e mai chiusa in schemi rigidi».
Durante le escursioni in Val di Non spesso non sei solo, ma le condividi con i curatori del progetto, esperti, un regista. Come questo sta modificando, in questo momento, il tuo approccio? Pensi che questo si rifletterà anche nel modo in cui elaborerai successivamente i materiali?
«Nell’epoca della connettività e condivisione virtuale ho spesso scelto di condurre i miei viaggi in solitaria e di condividerne una parte solo eventualmente o comunque in un momento successivo, nella consapevolezza che non tutto è trasmissibile.
Durante la residenza per “A line made by walking” la condivisione è stata reale e sul campo, una sorta di open studio in cui l’ambiente si è fatto laboratorio esperienziale e relazionale a cielo aperto. Un modo, per esempio, per coinvolgere i curatori direttamente, in media res, anziché riportare loro l’esperienza attraverso il racconto e l’inevitabile filtro selettivo che questo comporta.
Sulla rielaborazione dei materiali devo dire che ho dei tempi di sedimentazione dell’esperienza molto dilatati: il presente è sempre molto complesso e articolato da decifrare, per ora questa dinamica rimane un’incognita. Come del resto è accaduto per tutto il mio lavoro, non parto con l’idea di realizzare un’opera, questo è solo uno sbocco successivo ed eventuale».
Due domande a Emanuele Gerosa
In occasione di questa residenza c’è stata una collaborazione tra voi, Daniele ed Emanuele, in cui tu, Emanuele, hai seguito Daniele nei suoi percorsi nella natura documentandoli. Come è nata questa collaborazione? Come avete lavorato insieme e che scelte avete fatto per documentare la tua residenza?
Daniele Girardi: «Conosco Emanuele sin dai tempi dell’università, durante questi anni abbiamo collaborato varie volte e quando gli ho proposto di seguire questa mia residenza ha accettato con entusiasmo di lavorare insieme a un nuovo progetto, così senza pensarci troppo abbiamo detto: “Partiamo!”, consapevoli del fatto che la profonda conoscenza dei nostri rispettivi percorsi di ricerca e la sintonia che abbiamo costruito negli anni ci avrebbero permesso di trovare la formula perfetta per intrecciare le nostre operatività».
Emanuele Gerosa: «Mi occupo da anni di documentari e quindi la cosa più semplice sarebbe stata “documentare” questo percorso di Daniele nei boschi della Val di Non, ma, appunto, sarebbe stata “semplicemente la strada più semplice” e basta. Dovevo trovare il modo di fondere le immagini con il senso intimo della ricerca dell’artista. Questo suo percorso di immersione nella natura doveva trovare un corrispettivo nella mia ricerca visiva. Ho pensato che la videocamera dovesse seguire il percorso dell’artista senza mai interagire con lui. Come lo sguardo della natura stessa, come un elemento attratto e incuriosito dalla presenza di questo essere sconosciuto. Un elemento che scruta i suoi movimenti, movimenti che apparentemente non lasciano traccia, ma che in realtà creano una traccia profonda dentro l’artista stesso così come nell’essenza del territorio che attraversa. La videocamera doveva essere lo specchio del percorso dell’artista, un percorso di esperienza dell’altro, di apprendimento e di conoscenza».
Emanuele, puoi ricordarci, in estrema sintesi, i cardini della tua ricerca?
Emanuele Gerosa: «Da anni mi dedico alla realizzazione di progetti di film documentario e in tutti i miei lavori mi sono sempre concentrato sul concetto di “relazione”. Come esseri umani, il nostro sentire, desiderare, agire, il nostro vivere in ultima analisi, sono sempre in relazione a qualcun altro o a qualcos’altro, sia esso ambiente circostante, un oggetto o un concetto. Lo stesso atto filmico presuppone una relazione tra l’autore e quello che viene filmato e anche l’atto di condivisione dell’opera filmica stabilisce una relazione tra l’immagine e il suo autore con il pubblico. Questa è la cifra costante della mia ricerca: stabilire un punto di vista e osservare una relazione per poterne raccontare la dinamica. In questo caso ho voluto indagare la relazione che si stabilisce tra l’artista che si muove in un ambiente e l’ambiente stesso. Ho cercato di immergermi, mimetizzarmi fino a fondermi in questo ambiente, per comprendere e rappresentare il punto di vista dell’ambiente verso l’essere umano che vi transita. L’artista compie una ricerca dentro sé stesso attraverso l’esperienza con l’ambiente in cui si trova immerso, il filmato che ho realizzato ha l’obiettivo di mostrare come a sua volta l’ambiente cerchi di comprendere questo essere e il suo passaggio».